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Le modifiche al Credo, il nodo del Concilio di Ferrara-Firenze
Comprendere quali siano stati i contenuti della disputa sul Filioque nelle varie sessioni del Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439) è di grande importanza per cogliere la modalità con cui la Chiesa cattolica intende lo sviluppo della comprensione dei dogmi della fede.
Allorché Benedetto XVI, nel dicembre 2005, parlò dell'ormai nota ermeneutica della riforma nella continuità, come chiave interpretativa dei dibattuti testi conciliari, non inventò nulla, perché non fece che richiamare un principio che la Chiesa ebbe sempre ben presente, e che trova nel Concilio del XV secolo una realizzazione piuttosto eloquente.
La paziente spiegazione di espressioni apertamente contestate e passibili di ambiguità, l'esplorazione dei testi scritturistici, liturgici e patristici, la comprensione del ruolo della Chiesa sono i tre pilastri su cui ha poggiato la posizione cattolica nello sviluppo dogmatico, in modo particolarmente eloquente durante il Concilio in questione.
Pilastri che di fatto portarono una parte dei cristiani greci a comprendere la bontà della posizione dei Latini e accettare dunque con gratitudine la riunificazione con Roma. Solo una parte, però, perché un'altra assai consistente perdurò nello scisma, fino ai nostri giorni.
È dunque importante comprendere le ragioni e la logica dei cosiddetti antiunionisti, per poter capire quale sia la forma mentis degli scismi di ogni epoca e luogo.
Uno dei nodi discussi da Greci e Latini riguardò la possibilità di aggiungere o togliere qualcosa dal Simbolo della fede, problema che emerge sullo sfondo di un altro tema chiave: è possibile uno sviluppo dogmatico?
Sebbene fosse chiaro a tutti i partecipanti al Concilio che l'espressione del Filioque fosse presente da secoli nel Credo di molta parte della Chiesa latina, da parte del metropolita di Efeso, Marco Eugenico (1392-1444), principale oppositore alla riunificazione, venne sollevata l'importante obiezione “di forma” al Filioque: la scelta dei Latini di apportare un'aggiunta al Simbolo della fede non era forse in palese contrasto con quanto stabilito dal settimo canone del Concilio ecumenico di Efeso (431), il quale stabiliva che «nessuno può proporre, redigere o formulare una fede diversa da quella definita a Nicea dai santi padri assistiti dallo Spirito Santo»?
Dunque, prima ancora di affrontare il contenuto dottrinale del Filioque, veniva messa sul tappeto la questione della liceità di apportare modifiche a quanto un concilio ecumenico aveva stabilito, in particolare in quella che doveva essere la cartina tornasole della fede, ossia il Simbolo della fede, che, a Nicea prima e a Costantinopoli dopo, era stata messa a punto per smascherare i vescovi ariani e affermare la fede ortodossa.
L'affermazione di Marco Eugenico che i Latini avrebbero contravvenuto al divieto di Efeso parve a molti un pretesto. Tuttavia non ci si poteva sottrarre dall'affrontare la questione, dal momento che i Greci portavano a loro sostegno autori importanti, come san Cirillo d'Alessandria (ca 370-444), venerato da entrambe le parti, che in una sua lettera rivolta al vescovo di Antiochia, Giovanni, scrisse in modo perentorio: «In nessun modo tolleriamo che, da parte di chicchessia, venga infirmata la fede definita, ovvero il simbolo della fede dei nostri padri, a suo tempo convenuti a Nicea; non permettiamo a noi stessi o ad altri, né di sostituire una parola di quelle che vi si trovano, né di violare anche una sola sillaba».
La lettera sembrerebbe chiudere la partita a favore dei Greci per un convincente argomento ex auctoritate; e Marco di Efeso in effetti la considerò argomento decisivo per mostrare che, non essendo lecito aggiungere nulla al Simbolo, i Latini avevano essi stessi commesso un crimine canonico e rotto così l'unità.
L'alterazione del Simbolo era stata in effetti la modalità con cui ariani, semi-ariani e nestoriani avevano inteso modificare il contenuto della fede; è noto come i semi-ariani avessero tentato di sovvertire la fede espressa dal Concilio di Nicea, aggiungendo un semplice “iota” all'espressione homoousios (vedi qui), trasformando la consustanzialità del Figlio e del Padre in una somiglianza di sostanza (homoiousios).
E tuttavia il cardinale Giuliano Cesarini (1398-1444) fece notare al rivale la speciosità delle sue affermazioni. Il Concilio di Efeso infatti si riferiva al Simbolo di Nicea; e tuttavia, i Padri di Costantinopoli fecero moltissime aggiunte al Credo niceno, senza che questo comportasse alcuna condanna da parte del successivo Concilio efesino; al contrario si considerò il Simbolo di Costantinopoli uno sviluppo necessario e pertinente del niceno. «Quindi – concluse il cardinale – un credo che sia in armonia di pensiero, dev'essere considerato identico, e non altro. Non viene vietato da questo decreto [di Efeso, n.d.a.], che vieta un'altra fede, cioè una fede contraria e discordante dalla verità».
L'interdizione di Efeso colpiva dunque quelle modifiche che conducevano ad un'altra fede, non una qualsiasi aggiunta apportata per meglio chiarire la medesima fede. I Greci opposero allora un'altra importante lettera , questa volta di papa Agatone (ca 575-681) e di oltre cento vescovi, in occasione del terzo Concilio di Costantinopoli (680-681), nella quale si intimava che «nulla di ciò che è stato canonicamente fissato, sia ridotto, mutato o alterato da aggiunte, ma sia custodito intatto nella lettera e nel senso».
Ma, di nuovo, questa lettera era stata scritta dopo che sia il Simbolo che le definizioni di fede avevano già registrato diverse modificazioni; lo stesso Agatone, inoltre, vi aveva allegato la professione di fede Omnium bonorum spes (cf. Denzinger 546-548), che molto aggiungeva al Simbolo di Nicea e pure a quello di Costantinopoli!
Il dibattito permise di mettere in chiaro due questioni importanti. La prima: il contenuto della fede può e deve essere approfondito; talvolta sono le minacce delle eresie a stimolare l'approfondimento, talaltra è una più pacifica contemplazione del mistero. Ma quello che è chiaro è che il depositum fidei non è qualcosa che dev'essere messo sottochiave con lo scopo di preservarlo meglio, ma è il talento che va investito perché produca “gli interessi” attesi dal padrone.
Qui entra in gioco quel delicato equilibrio che deve guardarsi da due pericolosi nemici: l'uno che fa morire questo deposito con il proposito di conservarlo, l'altro che lo corrompe con la scusa di farlo crescere.
Per questo la Chiesa, mentre non teme di apportare “aggiunte” alle verità di fede espresse, approfondendo ed esplicitando quanto già essa custodisce, mette altresì in guardia dal sovvertimento della fede, che può avvenire sia modificando il Simbolo e le formule dottrinali e definitorie, sia anche custodendo sì la lettera, ma per evitare di aderire allo sviluppo ortodosso della nostra comprensione dei misteri.
Quest'ultimo fu il caso dell'archimandrita Eutiche (V sec.), che accusò il patriarca di Costantinopoli, Flaviano (+449), di aver aggiunto delle novità alla fede espressa dai concili ecumenici, sostenendo la “nuova dottrina” delle due nature in Cristo. E lo stesso stava per ripetersi al Concilio di Firenze: i Greci esigevano di conservare la lettera di un Simbolo senza Filioque, ma non si rendevano conto dei problemi che il loro rifiuto della processione anche dal Figlio avrebbe generato.
Seconda fondamentale questione: la Chiesa ha l'autorità per meglio spiegare ed esporre la fede, per difenderla dagli errori, per ammettere nuove pratiche conformi alla fede e respingerne altre difformi.
In questo senso, nessun concilio può vincolare un concilio successivo a “non andare oltre” il proprio dettato, né un papa vincolare un suo successore. Ciò che vincola senza eccezione un concilio e il papa stesso è il contenuto della fede, perché nessuno è superiore a quanto Dio stesso ha rivelato.
Per questo, come vedremo nel prossimo articolo, i sostenitori del Filioque non si limitarono a rivendicare l'autorità della Chiesa, ma si diedero premura di mostrare come la dottrina della processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio fosse realmente fondata nella Parola di Dio, nell'insegnamento dei Padri e pienamente in armonia con il dogma trinitario definito nei primi concili.
Fonte "Le modifiche al Credo, il nodo del Concilio di Ferrara-Firenze"
Gli errori teologici di Marco Eugenico nell’opporsi al Filioque
Oltre all'impostazione letteralista, un altro fattore portò il metropolita Marco Eugenico a chiudersi teoreticamente sulle barricate, ripetendo la propria opposizione al Filioque senza riuscire a comprendere l'argomentazione “latina”.
Leggendo i testi della disputa che, durante il Concilio di Ferrara-Firenze, oppose il più importante rappresentante dei Greci al domenicano Giovanni da Montenero (†1445/6), al metropolita di Nicea, Bessarione (1403-1472), e al teologo bizantino, Giorgio Scolario (ca 1405-1472), si ha la netta sensazione che la parte greca anti-unionista avesse la necessità esistenziale di arroccarsi su una posizione, ormai poco difendibile, per evitare la temuta unione con la Chiesa latina: siccome non ci fidiamo del papa, non dobbiamo cedere sul Filioque...
La tesi, dal punto di vista teologico, di Marco Eugenico era infatti sempre sostanzialmente la stessa: i Latini, affermando la processione dello Spirito Santo anche dal Figlio, avrebbero introdotto una dualità di princìpi in Dio.
Per difendere la posizione greca, egli tentava ogni volta di mostrare la contraddizione in cui, a suo avviso, cadrebbe qualunque filioquista. Vediamo un po' più da vicino il suo ragionamento.
Se avessero ragione i Latini, allora ci troveremmo di fronte a due possibilità: o lo Spirito Santo procede dalla persona del Padre e dalla persona del Figlio, e così si avrebbero appunto due princìpi nella Trinità. Oppure, per salvare l'unico principio, lo Spirito Santo dovrebbe procedere dall'unica sostanza divina, e in questo modo si giungerebbe ad affermare che lo Spirito Santo procederebbe da sé stesso, in quanto anch'egli è Dio.
In realtà, all'Eugenico venne spiegato che non c'era alcun bisogno di separare nettamente le persone dalla sostanza divina; infatti, quando si parla della generazione del Figlio dal Padre, condivisa da Latini e Greci, si afferma che il Figlio è generato dal Padre (persona), ma anche che la divinità del Padre (sostanza) è il principio per cui è generato il Figlio, così da comunicargli appunto la stessa sostanza divina.
A nessuno verrebbe in mente di dire che, siccome la divinità del Padre è il principio di questa comunicazione, allora vorrebbe dire che il Figlio genera sé stesso, in quanto anch'egli è Dio! Detto in altro modo: è il Padre (persona) che genera il Figlio, e la divinità (sostanza) è il principio per cui il Figlio viene generato; le due cose non si escludono affatto.
Dunque, non o la persona o la sostanza, ma sia la persona che la sostanza, sotto due aspetti differenti ma tutt'altro che contraddittori. E dunque, mentre affermiamo le due distinte persone che spirano lo Spirito, così possiamo affermare l'unico principio della sostanza divina per cui procede lo Spirito.
Questo et-et, contrapposto all'aut-aut di Marco Eugenico, spiega come non si introduca affatto in Dio una dualità di principio – il principio è uno, ossia la sostanza divina –, mentre si afferma la dualità delle persone (Padre e Figlio) da cui lo Spirito procede.
Marco, più o meno all'angolo, cercò allora di difendersi, alludendo ad un presunto sabellianesimo di Giovani da Montenero, ossia di non distinguere più le persone in Dio. Sospetto del tutto infondato e pretestuoso, data la chiarificazione ribadita più volte dal domenicano: principio unico, perché unica è la divinità, ma due persone distinte, una generante e l'altra generata.
A questo punto però Giovanni ebbe buon gioco a mostrare a Marco Eugenico che è la posizione greca a confondere le persone divine. Anche Bessarione cercò di spiegare per quale ragione sia proprio la necessaria affermazione della distinzione delle persone divine a portare al Filioque.
Vediamo l'argomentazione, che cerchiamo di semplificare il più possibile. Il Figlio si chiama così perché “riceve” dal Padre nella generazione eterna; la distinzione tra Padre e Figlio è dunque marcata proprio dal fatto che il Padre è generante e il Figlio generato, ossia, come si dice in termini teologici, dalla loro relazione di opposizione.
Ma come si distinguerebbero tra loro il Figlio e lo Spirito Santo se di entrambi si potesse dire solamente che provengono dal Padre come loro unico principio? Spiegava Bessarione: di certo non li distingue la materia, perché essa in Dio non esiste; non li distingue la specie, perché entrambi sono Dio. Dunque a distinguerli dev'essere necessariamente una relazione di opposizione; e dunque il Figlio spira lo Spirito e lo Spirito procede dal Figlio.
Se non li distinguesse una tale opposizione, allora cos'altro li potrebbe distinguere? Se lo Spirito non si distinguesse dal Figlio per il fatto che procede da entrambi e non, come il Figlio, dal solo Padre, allora sì che lo Spirito sarebbe identico al Figlio, non essendoci tra i due alcun'altra possibile distinzione, essendo unica e identica la divinità.
Marco Eugenico decise allora di tentare la carta dell'«ineffabile» per uscire dalla stretta: la distinzione tra Figlio e Spirito Santo risiederebbe in una a noi ignota modalità ineffabile e non esprimibile di “provenienza”.
Nella sua posizione si nota la sempre di moda critica all'impostazione metafisica, che pretenderebbe di esaurire il mistero; in questo caso, il dito è puntato contro le relazioni di opposizione, che sarebbero un'invenzione latina.
Ma il ricorso all'ineffabile è qui del tutto fuori posto, perché tutta la spiegazione del mistero trinitario era sempre dipesa da una corretta metafisica. Se non fosse chiara la distinzione tra persone e sostanza divina, allora cadrebbe qualsiasi possibilità di comunicare la fede cristiana, cosa che invece i Padri dei primi concili ecumenici hanno fatto.
Quanto alle relazioni di opposizione, è proprio un greco, Bessarione, a mostrare a Marco la sua ignoranza. Le persone della Trinità, infatti, non possono distinguersi che per le relazioni opposte: paternità-filiazione, spirazione-processione.
Nient'altro le può distinguere, perché una è la sostanza divina; eppure, se queste persone devono essere reali, come vuole la fede, allora ci dev'essere una vera distinzione. E tale distinzione sta proprio ed esclusivamente nelle reciproche relazioni opposte. E dunque, ancora una volta, se lo Spirito non procedesse anche dal Figlio, non vi sarebbe alcuna relazione di opposizione (e dunque alcuna distinzione) tra il Figlio e lo Spirito Santo.
Invece, il Filioque permette una perfetta distinzione, senza compromissione dell'unità divina: il Padre e il Figlio si distinguono come il generante e il generato; il Padre e lo Spirito come colui che spira e colui che procede, e così il Figlio e lo Spirito. Nessuna confusione tra il Padre e il Figlio, affermandone l'unico principio di spirazione, perché tra loro la differenza è già marcata dalla generazione; inoltre il Figlio è unito nella spirazione precisamente perché ha ricevuto dal Padre la divinità, che di tale spirazione è l'unico principio.
La questione del Filioque era – ed è – in realtà teoreticamente chiusa, ma questo non bastava per far cessare l'ostilità dei Greci all'unificazione.
Fonte "Gli errori teologici di Marco Eugenico nell’opporsi al Filioque"
La lezione della disputa sul Filioque
Oltre al tema del Filioque, che abbiamo affrontato negli ultimi articoli, nel “menù” del Concilio di Ferrara-Firenze, in relazione alla riunificazione con i Greci, vi furono anche altri temi cardine, come la questione dell'uso del pane azzimo nella celebrazione dei Divini Misteri, la dottrina sul Purgatorio e, soprattutto, il primato del Vescovo di Roma.
Le discussioni furono ampie e prolungate, ma bisognava arrivare ad una conclusione, per evitare che il Concilio finisse solo in parole.
Si cercò perciò di arrivare al dunque, con il vescovo di Nicea, Bessarione (1403-1472), che spingeva per la riunificazione e il metropolita di Efeso, Marco Eugenico (1392-1444), che invece non ne voleva sapere. Alla fine venne comunque preparata una formula d'unione, non senza tensioni e attriti, espressa nella bolla Lætentur cæli (6 luglio 1439).
I Greci partirono per rientrare nelle proprie terre e il Concilio fiorentino continuò per affrontare altri problemi ed estendere la riunificazione ad altre chiese orientali separate. Pochi mesi dopo la Lætentur cæli, il 22 novembre, si giunse infatti ad una formula di unione con gli armeni (bolla Exsultate Deo). Più tempo fu necessario per la riconciliazione con i copti e gli etiopi (4 febbraio 1441 o 1442).
Ma non appena la notizia della bolla firmata il 6 luglio si sparse a Costantinopoli e dintorni, ci fu una sollevazione contro la riunificazione, supportata soprattutto dai monasteri e dall'inesauribile Marco Eugenico, che si era rifiutato di apporre la propria firma alla Lætentur cæli e che ora cercava di radunare le truppe per la resistenza.
Resistenza che alla fine ebbe la meglio e condusse ad una nuova lacerazione, che sfociò in un concilio riunito dalla parte greca nel 1472. Gli imperatori cristiani d'Oriente avevano cercato di contenere le spinte centrifughe e di mantenere alla meglio la fragile unificazione ottenuta a Firenze.
Ma con la presa di Costantinopoli da parte degli Ottomani, la loro influenza finì e così la parte greca che spingeva per un nuovo scisma ebbe la meglio e ottenne dal sultano Maometto II (1432-1481) di poter avere alla sede patriarcale di Costantinopoli Giorgio Scolario (ca 1405-1472).
Scolario fu grande sostenitore della riunificazione durante il Concilio di Firenze, ma, a partire dal 1444, rovesciò completamente la propria posizione, aprì le ostilità con la Chiesa cattolica ed entrò nelle grazie del sultano, che aveva ovviamente tutto l'interesse politico di supportare la divisione tra Greci e Latini.
Cerchiamo di tirare un po' le somme da quanto emerso nella serie di articoli che abbiamo dedicato alla questione del Filioque.
La prima e più semplice: gli scismi difficilmente rientrano. Purtroppo. E la ragione non è difficile da comprendere. Non appena ci si pone in una situazione di totale indipendenza, si avverte la necessità di sviluppare un armamentario di argomentazioni che giustifichino la rottura.
Argomentazioni che diventano man mano “granitiche”, mentre la parte da cui ci si è distaccati diventa l'emblema dell'eterodossia. Se si prende, appunto, il dibattito sul Filioque, si può vedere come, ad un certo punto, ciò che veniva tollerato (ossia la presenza del Filioque nei Simboli latini) divenne motivo per accusare di eresia.
Una prolungata permanenza della separazione crea così una rigidità di atteggiamento per la necessità di difendere non solo la propria posizione, ma soprattutto quella realtà complessa, fatta di fedeli, monasteri, seminari, opere di vario genere, che si è andata costituendo e ha la sua ragion d'essere proprio nella separazione. Le ragioni teologiche non di rado vengono messe a servizio della “ragion di Stato”.
La seconda considerazione riguarda l'atteggiamento argomentativo, talvolta nella linea della disputa, che si è registrato durante il Concilio di Ferrara-Firenze.
Da parte latina non si esibì un argomento di pura autorità, ma si sviluppò un'argomentazione ampiamente ancorata negli scritti dei Padri della Chiesa e nel sano ragionamento; si cercò cioè di ragionare, argomentare, confrontarsi. Si tratta di un aspetto fondamentale, oggi purtroppo non sufficientemente utilizzato e valorizzato.
Quando si presentano punti controversi, è di fondamentale importanza ragionare e mostrare come una certa posizione risulti ancorata alle fonti della Rivelazione e alle sue autorità interpretative.
L'opposizione di argomenti puramente d'autorità non fa altro che acuire la contrapposizione e non permette alla controparte di riconoscere il vero. Ricordiamo che fu proprio questo approccio a far sì che autorevoli rappresentanti della parte greca, come Bessarione, inizialmente ostili all'unione, potessero cambiare la propria posizione.
Non basta affermare che una certa posizione è uno sviluppo coerente della dottrina: occorre mostrarlo.
Terza sottolineatura: occorre molta prudenza a brandire, nelle discussioni dottrinali, termini come “innovatori”, “conservatori” et similia, da usare contro le posizioni altrui o per difendere le proprie. È decisamente più fruttuoso e meno indisponente entrare nelle argomentazioni, cercando di trovare gli elementi comuni, senza per questo nascondersi quelli di contesa.
Si è infatti visto come la parte greca, in particolare Marco Eugenico, utilizzasse proprio l'argomento della novitas per squalificare il Filioque. A questa accusa di aver rotto con la Tradizione – che poteva apparire come fondata, dal momento che erano i Latini ad aver aggiunto al Simbolo il Filioque – i padri del Concilio mostrarono pazientemente che quell'aggiunta, che poteva essere interpretata anche in modo eterodosso, era tuttavia comprensibile in un modo del tutto conforme al dogma; ed era appunto questa interpretazione in continuità ad essere difesa dai Latini.
Allorché Benedetto XVI, nell'arcinoto Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, parlò dell'ermeneutica della riforma nella continuità, non inventò nulla di nuovo, ma semplicemente riformulava un principio chiave dello sviluppo dogmatico e della comprensione della fede.
Non si tratta di arrampicarsi sugli specchi e tirare in qualche modo un testo per il bavero, per forzarlo in una linea di continuità, ma di comprendere come spesso l'uso di certi termini, apparentemente in discontinuità, possa invece custodire un significato ortodosso.
Fonte "La lezione della disputa sul Filioque"
Fine della terza ed ultima parte
2024-11-23
Autore : Luisella Scrosati
Fonte : La Nuova Bussola Quotidiana