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Card. Giacomo Biffi: La Chiesa Cattolica e il problema della salvezza
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La Chiesa Cattolica e il problema della salvezza

 
Cardinale Giacomo Biffi  
 
ANNOTAZIONI INTRODUTTIVE  
 
La Dichiarazione Dominus Iesus  
 
Il 6 agosto 2000 la Congregazione per la dottrina della fede, a firma del suo prefetto il cardinal Joseph Ratzinger, pubblicava la Dichiarazione Dominus Iesus «circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa», che ha avuto nell'opinione pubblica una risonanza abbastanza insolita per questo genere di documenti. Che cosa dice quella Dichiarazione? Intende richiamare due certezze che appartengono al patrimonio della divina Rivelazione.  
 
Prima certezza  
 
«Deve essere fermamente creduto come verità di fede cattolica che la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio» (n.14). Sicché vanno ritenute «contrarie alla fede cristiana e cattolica» quelle ipotesi «che prospettassero un agire salvifico di Dio al di fuori dell'unica mediazione di Cristo»(ib.).  
 
Dunque «si può e si deve dire che Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo, universale, assoluto. Gesù è, infatti, il Verbo di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti» (n. 15).  
 
Seconda certezza  
 
«Deve essere fermamente creduto - come dice il Concilio Vaticano II - che la Chiesa pellegrinante è necessaria alla salvezza. Infatti solo Cristo è il mediatore e la via alla salvezza; ed egli si rende presente a noi nel suo corpo che è la Chiesa» (n. 20). La Chiesa quindi, «sempre unita in modo misterioso e subordinata a Gesù Cristo Salvatore, suo Capo, nel disegno di Dio ha un'imprescindibile relazione con la salvezza di ogni uomo» (ib.).  
 
«E questa Chiesa, di cui si parla, come dice ancora il Concilio Vaticano II, sussiste nella Chiesa Cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui» (n. 16).  
 
Sono affermazioni che possono a giusto titolo essere definite «elementari» entro il «deposito della fede» (cf 1 Tm 6,20; 2 Tm 1,14). Qualcuno però non è stato di questo parere. In certi ambienti, anche cattolici, al documento è stata data una lettura diffidente più che cordiale, sospettosa più che perspicace. Alcune reazioni, anche da parte di qualche uomo di Chiesa, hanno offerto una preziosa controprova di quanto esso fosse necessario e urgente nella bella confusione teologica e culturale che affligge la cristianità dei nostri giorni.  
 
Alle titubanze e alle obiezioni, che qua e là sono andate affiorando, ha risposto esplicitamente all' Angelus del 1 ottobre lo stesso Giovanni Paolo II, che già aveva «ratificato e confermato» la Dichiarazione «con certa scienza e con la sua autorità apostolica»: «È mia speranza che questa Dichiarazione che mi sta a cuore - "approvata da me in forma speciale" - dopo tante interpretazioni sbagliate, possa svolgere finalmente la sua funzione chiarificatrice».  
 
Da più parti si è cercato di trovare nel testo ciò che nel testo non c'è: segnatamente la chiusura a ogni dialogo interreligioso e addirittura l'asserzione che non ci sia possibilità di salvezza a chi non appartiene sociologicamente alla Chiesa di Roma. In realtà, le due certezze sopra segnalate sono proposte non in antitesi ma in connessione irrinunciabile con quella della decisione di Dio di salvare tutti i figli di Adamo: «è necessario tener congiunte queste due verità, cioè la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini e la necessità della Chiesa in ordine alla salvezza» (n. 20).  
 
Come queste due verità si congiungano e mutuamente si integrino, la Dichiarazione non lo dice. Anzi, molto correttamente non lo vuol dire, perché - una volta elencati i punti che sono obbliganti per tutti - non ritiene di dover suggerire risposte alle questioni teologiche liberamente disputate. Intende solo ricordare «alcuni contenuti dottrinali imprescindibili, che possano aiutare la riflessione teologica a maturare soluzioni conformi al dato di fede e rispondenti alle esigenze culturali contemporanee» (n. 3). È appunto il tentativo e il non facile lavoro che qui vorremmo intraprendere.  
 
«Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo»  
 
«Gesù disse loro: "Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato"» (Mc 16,15-16). È un «detto» riferitoci dalla finale del vangelo di Marco. La cristianità contemporanea lo ricorda poco ed evita di citarlo almeno nella sua integralità: è un fatto che la parola di Dio - esaltata oggi come in nessun'altra epoca - risulta oggetto ai nostri giorni di numerose censure, allorché qualche suo asserto sembra non convenire agli assiomi ideologici dominanti.  
 
Eppure quello è un «loghion» tra i più limpidi ed esistenzialmente rilevanti di tutto il magistero del Signore. In esso il tema della salvezza - onnipresente e per molti aspetti primario nei discorsi e nell'azione di Cristo - è posto in esplicita relazione con due irrinunciabili componenti della vita ecclesiale: la professione di fede e la pratica sacramentale. Sulla relazione appunto tra «salvezza» ed «ecclesialità» ci proponiamo qui di riflettere.  
 
Problema umano e risposta cristiana  
 
Va notato in via preliminare che quello della salvezza non è di per sé un problema soltanto teologico: anche se l'uomo è tentato spesso di aggirarlo o addirittura di ricusarlo, è anche un problema nativamente umano. Il cristianesimo ritiene piuttosto di essere in grado di offrire la risposta pertinente a una domanda che nei suoi contenuti sostanziali è previa a ogni attitudine religiosa e a ogni cultura. L'uomo può essere a buon diritto ritenuto un «essere da salvare». Aspira oggettivamente a essere salvato, anche quando soggettivamente non ne è nemmeno consapevole; vi aspira con la sua realtà più intima e più autentica, pur se talvolta è indotto a coltivare orgogliosamente l'illusione dell'autosufficienza e a inseguire il miraggio dell'autoredenzione.  
 
Una serie di fatali insuccessi intristisce e umilia anche l'esistenza più fortunata e spiritualmente più ricca. Nell'ambito intellettuale incontriamo ad esempio l'amarezza di non riuscire ad arrivare al tranquillo possesso di quelle persuasioni fondamentali - circa la nostra origine, il nostro destino, il senso del nostro pellegrinaggio sulla terra - che pure ci appaiono necessarie per dare qualche ragione e qualche valore ai nostri giorni annebbiati e fuggevoli.  
 
Nell'ambito della vita morale poi, dobbiamo riconoscere di non essere quasi mai all'altezza dei nostri ideali: non ci riesce di far coincidere perfettamente nella nostra condotta 1'«essere» e il «dover essere». È un disagio multiforme, da cui l'uomo talvolta si ingegna di evadere, magari barando un po' nel gioco e chiudendo gli occhi sui dati. Così talvolta arriva a convincersi che non c'è traguardo reale all'incontentabilità della sua sete di conoscenza: il solo approdo possibile e anzi auspicabile - egli si dice - è il dubbio, la relativizzazione di ogni acquisizione intellettuale, in definitiva lo scetticismo. O anche, alla scuola disingannatrice dell'esperienza, abbassa progressivamente le sue convinzioni etiche primordiali sino a farle coincidere con i propri effettivi comportamenti.  
 
Dalla Rivelazione apprendiamo che questa specie di suicidio spirituale - della creatura che non accetta di riconoscere la sua finitezza e i fallimenti che naturalmente incombono su di lei se è lasciata a sé sola - è l'unico serio ostacolo che possiamo porre all'azione misericordiosa del «Dio Salvatore» (Lc 1,47: «Dio mio salvatore», come canta la Vergine Maria); ed è l'unica autopreclusione dell'uomo ad accedere alla salvezza.  
 
Con questo significato si possono leggere le terribili parole del Signore Gesù: «Guai a voi che siete sazi» (cf Lc 6,25); vale a dire: guai a voi che avete spento artificiosamente in voi ogni fame di verità e di salvezza. E si capiscono meglio in questa luce le sue ritornanti polemiche coi farisei, che «presumevano di essere giusti» (cf Lc 18,9) e dunque di essere già autonomamente «salvi».  
 
Lo scacco inevitabile della morte  
 
Da un altro «scacco» è ancor più malagevole che l'uomo possa difendersi, anche se la sua capacità di autoingannarsi è quasi senza confini; ed è la morte. La morte è per noi una disfatta totale: tutto in essa viene vanificato. Il nostro destino appare qui assimilato a quello dei bruti, sicché c'è in questa nostra fine quasi un'irrisione nei confronti di quanto ci fa diversi e più nobili: la razionalità, l'amore personale, il sentimento della bellezza, l'anelito a una gioia senza offuscamenti e senza deteriorabilità. Come nota Solovev, «la morte livella ogni cosa e di fronte ad essa l'egoismo e l'altruismo sono parimenti privi di senso» (I tre dialoghi, Edizione Marietti 1975, p. 159).  
 
L'appuntamento immancabile con la nostra morte ci dice che la salvezza, oggetto dei nostri intrinseci desideri, non può riguardare soltanto lo spazio dell'esistenza terrena: deve includere, se non vuol essere alla fine inconsistente e illusoria, anche una sopravvivenza ultratemporale. Solovev anzi nota che, essendo la morte un «fatto», soltanto da un altro «fatto» di segno contrario può essere superata. Sicché egli arriva ad affermare che la risurrezione di Cristo, in quanto principio della nostra vittoria sulla morte, è «una verità non solo della fede, ma anche della ragione», dal momento che «se Cristo non fosse risorto..., il mondo ci apparirebbe una cosa assurda, come il regno del male, dell'inganno, della morte» (Sette lettere pasquali, in I tre dialoghi, p. 257).  
 
La salvezza dalla «perdizione»  
 
Di più, il Dio che manifesta il suo disegno di amore e interviene positivamente nella nostra storia, ci rivela e ci offre una «salvezza totale»: vale a dire, una sublimazione trascendente ed escatologica dell'intera nostra realtà umana. E poiché l'uomo è costitutivamente un «essere libero», chiamato a scegliere tra due contrari destini definitivi, la salvezza di cui il Padre misericordioso ci parla e ci gratifica è conquista di uno stato di vita senza termine e di una letizia non insidiabile, che si contrappone a una condizione irreformabile di avvilimento e di pena.  
 
«Salvezza» nel cristianesimo è ingresso nella «vita eterna» e nel «Regno dei cieli», come è prospettato continuamente dai discorsi del Redentore; è riapertura del «Paradiso», che ci era stato precluso (cf Gn 3,24), secondo la promessa del Signore crocifisso al ladro pentito crocifisso con lui (cf Lc 23,43).  
 
La questione teologica  
 
La questione, come s'è visto, è primariamente «umana» e «naturale», e insorge in noi indipendentemente dalla nostra fede o dalla nostra incredulità. Ma noi, essendoci proposti di approfondire i rapporti tra Chiesa e salvezza, dobbiamo ovviamente attenerci a una indagine di natura teologica; la sola d'altronde che arrivi a una conclusione che appaghi e non deluda. Il nostro problema diventa allora quello di chiarire quali siano i contatti e le intersecazioni tra la «soteriologia» (cioè la dottrina rivelata sulla salvezza) e la «ecclesiologia» (cioè la dottrina rivelata sulla Chiesa).  
 
«Universale salutis sacramentum»  
 
Il Concilio Vaticano II ci offre autorevolmente una buona partenza, quando insegna che «la Chiesa è l'universale sacramento di salvezza»: «Ecclesia est universale salutis sacramentum». È una formula che deve essere singolarmente piaciuta ai Padri conciliari, dal momento che la ripropongono sempre identica in tre documenti diversi: Lumen gentium 48 (21 novembre 1964); Ad gentes 1 (7 dicembre 1965); Gaudium et spes 45 (7 dicembre 1965).  
 
In effetti, appare felice il ricorso, in questo contesto, all'antica categoria sacramentale, estesa all'intera realtà della Chiesa. «Sacramento» indica non solo «segno», ma «segno che opera»; non solo «figura», ma «figura attuativa»; non solo «simbolo», ma simbolo che è anche possesso «in mysterio».  
 
La Chiesa quindi, oltre a proclamare l'esistenza di una volontà e di un'azione di riscatto a favore dell'uomo da parte di Dio, entra in questa azione salvifica con una partecipazione emblematica ed efficace: è, appunto, «sacramento universale di salvezza».  
 
«Extra Ecclesiam nulla salus»  
 
L'antica tradizione della dottrina cattolica conosceva però un altro aforisma: «Extra Ecclesiam nulla salus» («fuori della Chiesa non c'è salvezza»). In che rapporto stanno tra loro queste due diverse espressioni? Va detto subito che esse non sono sovrapponibili: quella del Vaticano II, che si enuncia con locuzione positiva, consente interpretazioni più sfumate e possibiliste; quella antica, proprio perché negativa, non lascia spazio a nessuna eccezione.  
 
Sotto il profilo strettamente linguistico, bisogna obiettivamente riconoscere che le due formule né coincidono né si contraddicono; e così lasciano intatto il problema di merito. Che è appunto il nostro problema.  
 
Indubbiamente va ammessa e proclamata una intrinseca relazione tra la Sposa di Cristo e la salvezza degli uomini; ma in che cosa precisamente consiste? In termini ancora più espliciti: l'appartenenza alla Chiesa è una strada alla salvezza che è obbligatoria e necessaria per tutti? O è piuttosto un percorso utile ma facoltativo? O, se si vuole, è al massimo una «corsia preferenziale»? È ciò che ci proponiamo di appurare.  
 
La corretta metodologia  
 
Problemi come questi corrono il serio pericolo di essere affrontati con una metodologia non adeguata o non pertinente - di indole, potremmo dire, «politica» - come sarebbe quella che facesse credito alla sollecitudine di facilitare il dialogo e la convivenza con quanti sono dichiaratamente estranei alla vita ecclesiale; sollecitudine «pratica» e «comportamentale» che, quando non è esclusiva, può essere legittima e perfino doverosa, ma è dubbio che possa di solito offrire giusti criteri per il rinvenimento della verità.  
 
La verità va ricercata per se stessa: le attenzioni di altra natura non sono di molta utilità. Va ricercata dunque all'interno della «sacra doctrina», nella quale si conserva integra e giovane la Rivelazione di Dio, senza che ci abbiamo a preoccupare di ciò che ai nostri giorni è giudicato «politicamente corretto» o di ciò che viene ossessivamente imposto dalle ideologie dominanti.  
 
Struttura della nostra indagine  
 
In concreto, articoleremo la nostra investigazione tentando di chiarire successivamente:
  • che cosa sia la Chiesa nella sua realtà più essenziale e più incontestabile;
  • che cosa comporti la «ecclesialità della salvezza»;
  • che cosa propriamente significhi «appartenenza ecclesiale».
 

I. LA REALTÀ DELLA CHIESA

 
 
Che cosa è la Chiesa? Lungo il secolo ventesimo, nella predicazione comune e nella catechesi, la realtà della Chiesa è stata variamente presentata e descritta.  
 
Il catechismo di Pio X  
 
Per molti decenni i ragazzi hanno mandato a memoria la definizione del Catechismo di Pio X: «La Chiesa è la società dei veri cristiani, cioè dei battezzati che professano la fede e la dottrina di Gesù Cristo, partecipano ai suoi sacramenti e ubbidiscono ai Pastori stabiliti da lui».  
 
Questo testo aveva il pregio di richiamare implicitamente la direttiva, ultima e riassuntiva, impartita dal Signore risorto agli Apostoli secondo la finale del vangelo di Matteo: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19).  
 
Utilizzando il concetto di «società», questa definizione metteva in primo piano la natura giuridica della Chiesa; aspetto che è certo incontestabile ma è anche il più esteriore e, per così dire, il più «mondano». Nella parola di Dio, il «mistero ecclesiale» appare connotato di una originalità e di una ricchezza che qui sono poste in ombra e anzi, a essere schietti, appaiono mortificate.  
 
Il «Corpo mistico di Cristo»  
 
Tra le due guerre, gli studi e la riflessione del gesuita fiammingo Emile Mersch hanno rilanciato nella coscienza della cristianità l'identificazione della Chiesa come «Corpo mistico di Cristo». Era il deciso superamento della visione prevalentemente giuridica, realizzato mediante il recupero del pensiero di san Paolo e di tutta la tradizione patristica. Notiamo che l'introduzione in questo contesto ecclesiologico dell'aggettivo «mistico», che non c'è in san Paolo, era ritenuto opportuno per evitare la confusione con il corpo individuale di Gesù.  
 
Questo approccio al mistero ecclesiale ha ricevuto la sua più convinta e più autorevole «consacrazione» dall'enciclica Mystici Corporis di Pio XII (1943), nella quale con chiarezza si afferma che «la Chiesa è il Corpo mistico di Gesù Cristo». Tale modo di guardare alla Chiesa è nettamente prevalente negli anni immediatamente precedenti il Concilio, e l'ecclesiologia che vi è implicita ispira anche la prima enciclica di Paolo VI, Ecclesiam suam (1964).  
 
Il «popolo di Dio»  
 
Dopo la Costituzione Lumen gentium - che ha dedicato l'intero secondo capitolo al concetto di «Chiesa popolo di Dio» - appunto quest'ultima prospettiva si impone e si generalizza nella cristianità.  
 
Non era per altro una novità. Anche il Catechismo Tridentino, citando sant'Agostino, diceva che «Ecclesia est populus fidelis per universum orbem dispersus» (edizione 1891, p. 86: «la Chiesa è il popolo fedele che è diffuso nel mondo intero»); espressione che è ripresa e perfezionata dal recente Catechismo della Chiesa Cattolica: «Ecclesia est populus quem Deus congregat ex mundo universo» (n. 752: «la Chiesa è il popolo che Dio raduna nel mondo intero»). Non era una novità, ma nell'opinione post-conciliare più divulgata è stata entusiasticamente accolta e conclamata come tale.  
 
Bisogna poi osservare che la concezione ecclesiologica della Lumen gentium non si riduce a questa sola categoria né tanto meno suppone una presa di distanza dalla Mystici Corporis. A questo proposito è significativo che nella Tertio Millennio adveniente (1994) Giovanni Paolo II abbia potuto scrivere: «Nell'Assise conciliare la Chiesa, proprio per essere pienamente fedele al suo Maestro, si è interrogata sulla propria identità, riscoprendo la realtà del suo mistero di Corpo e di Sposa di Cristo» (n. 19).  
 
Valutazione critica  
 
Possiamo dare un rapida valutazione dell'odierno prevalere del concetto di popolo di Dio. Riferito alla Chiesa, esso risale agli albori del cristianesimo e non è mai stato messo in discussione. Ha dunque pieno diritto di cittadinanza nel pensiero cattolico, e anzi il suo ritorno con una più motivata e convinta consapevolezza va ritenuto positivo e provvidenziale.  
 
Essendo una visione primaria ed elementare, non può essere in nessun modo trascurata. Ma è appunto una nozione «iniziale»: la Rivelazione divina - in special modo come è documentata dagli scritti paolini - movendo da qui arriva poi ad approfondimenti che dalla sola idea di «popolo» non si lasciano rappresentare.  
 
Il convincimento di essere il «nuovo Israele» è il dato di partenza; ma l'autocoscienza ecclesiale, come traspare dagli scritti apostolici, tocca il suo vertice di intensità quando la Chiesa sperimenta la gioia e lo stupore di essere la «Sposa» e il «Corpo» di Cristo.  
 
Se si riduce invece tutta la comprensione della Chiesa alla nozione di «popolo di Dio» non è possibile evitare alcuni inconvenienti teologici gravi e incresciosi.  
 
Il primo è quello di non cogliere nella sua decisiva rilevanza il passaggio dall'Antico al Nuovo Israele: l'uno e l'altro infatti sarebbe qui appellato alla stesso modo. La Chiesa è appunto frutto di questo «passaggio», cioè della «Pasqua del Signore crocifisso e risorto», la quale è una svolta decisiva nella storia della salvezza ed entra a determinare l'indole propria della «nazione santa» (cf 1 Pt 2,9).  
 
In secondo luogo, se si definisce la Chiesa soltanto come «popolo di Dio», Cristo non viene esplicitamente e direttamente chiamato in causa. Né san Paolo né san Giovanni ci applaudirebbero, essi che dopo una lunga elaborazione alla fine hanno compreso che la «ecclesialità» è in sostanza una intrinseca relazione con il Salvatore che sta alla destra del Padre.  
 
C'è infine un terzo rischio, che in questi decenni si è rivelato non puramente ipotetico: mettendo in primo piano e ritenendo esauriente il concetto di «popolo», c'è il pericolo di essere indotti a pensare alla Chiesa come a qualcosa di prevalentemente sociologico, che ha poca attinenza col «mistero nascosto da secoli» (cf Col 1,26), di cui ci parla la lettera ai Colossesi.  
 
Così è avvenuto - e in molte parti sta ancora avvenendo - che nonostante le intenzioni originarie di non lasciarsi impigliare dall'esteriorità e dal legalismo le questioni ecclesiologiche oggi più dibattute siano di natura sociale e giuridica: il modo di elezione dei vescovi, il valore da assegnare agli atti delle strutture di partecipazione, la «democraticità» degli organi decisionali, eccetera.  
 
La riflessione dei credenti va disincagliata da queste secche di «mondanità», perché possa navigare nel mare della gioia e della ammirata contemplazione, che negli animi illuminati non manca di essere suscitata dalla bellezza trascendente del disegno del Padre che si attua nella Chiesa.  
 
Alla scuola di san Paolo  
A questo fine è utilissimo andare in particolare alla scuola dell'apostolo Paolo, prendendo specialmente in considerazione il pensiero della sua maturità, quale è espresso dalle così dette «lettere della prigionìa». In esse egli trascende la realtà visibile e «storica» della Chiesa (che pure gli è ben presente) per cogliere adeguatamente la sua realtà «totale», che per molti aspetti è sovrumana e nascosta. Essa gli si rivela come il «corpo» glorificato del Risorto, il «pleroma» (la «pienezza») di Gesù, dove l'azione santificante del Padre per mezzo dello Spirito si realizza senza ostacoli e senza lacune: «Lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose» (cf. Ef 1,22-23).  
 
Che cosa è la Chiesa  
 
Possiamo adesso capire che cosa sia la Chiesa nella sua verità sostanziale: è la creazione - e segnatamente, per quel che più direttamente ci riguarda, l'umanità - in quanto è stata raggiunta e trasformata dall'azione redentrice di Cristo, e in quanto dall'effusione rinnovatrice dello Spirito Santo è congiunta ontologicamente al Signore risorto.  
 
Come si può facilmente intuire, secondo questa visione delle cose la realtà ecclesiale è data da tutto ciò che è toccato e riplasmato dal Salvatore, non da ciò che gli è rimasto disgiunto ed estraneo; da ciò che è stato permeato in vario modo e in varia misura dal fuoco pentecostale, effuso dall'unico Mediatore che sta alla destra del Padre, non da ciò che si è sottratto a questa azione rinnovatrice ed è rimasto freddo, impenetrabile, opaco.  
 
La «ecclesìa»  
 
Dall'azione dello Spirito ogni essere - anzi ogni velo d'essere, ogni pensiero, ogni inizio di volizione, ogni agire - che è stato raggiunto, purificato e trasformato (e proprio a misura che è stato raggiunto, purificato e trasformato) è raccolto in una «ecclesìa», cioè in una «convocazione», che determina un'unica vivente realtà.  
 
Cominciamo così a intravedere quale sia la «consistenza» oggettiva della Chiesa e a renderci conto del suo «mistero»: «mistero» è ciò che, eccedendo la nostra finitezza, appunto per questo è in grado di portarla a salvamento. Proprio della Chiesa intesa così cercheremo di capire quale sia la funzione necessaria in ordine alla salvezza di tutto il genere umano.  

II. LA «ECCLESIALITÀ» DELLA SALVEZZA

 
Tre necessarie premesse  
 
Per accostarsi con correttezza teologica al problema della «ecclesialità» della salvezza - e soprattutto per non incorrere in incresciosi malintesi e in critiche non pertinenti - vanno preliminarmente poste al sicuro tre irrinunciabili verità:  
 
  • la necessità per l'uomo di scampare da una rovina incombente, unitamente alla persuasione che questo è un traguardo che da solo non gli è dato di conseguire;
  • l'esistenza di un unico Salvatore degli uomini, che è Gesù Cristo;
  • l'esistenza in Dio di una volontà salvifica che concerne tutti gli uomini senza eccezioni.
 
 
Necessità per l'uomo di una salvezza  
 
Al primo convincimento abbiamo già fatto cenno nel discorso introduttivo. Ma è un dato troppo importante per non venire qui ribadito. L'uomo comune aspira d'istinto a essere difeso e preservato dalla morte, in particolare quando si rende conto che essa non soltanto appare come l'annientamento della sua personalità, ma anche come la vanificazione di ogni mèta raggiunta, di ogni merito, di ogni ideale. Chi non è ideologicamente intorpidito e reso insensibile, avverte la drammaticità di questa disfatta che tutti dobbiamo subire, e insieme la sua assurdità; addirittura la sente quasi come un'oggettiva ingiustizia.  
 
E la sperimenta con un'angoscia tanto più lancinante quanto più con gli occhi della carne non gli è concesso di scorgere nessun rifugio possibile. Ma anche antecedentemente al pensiero della morte, l'uomo comune che non rinuncia a pensare si imbatte in un altro motivo di sconforto: egli non può non cercare il senso ultimo delle cose, della vicenda umana, di se stesso; e dal momento che non gli riesce di trovarlo si sente vittima di una contraddizione. È la contraddizione di una creatura ragionevole che è in balìa dell'insignificanza, e quindi dell'irrazionalità. E da questa contraddizione sospirerebbe di essere liberato.  
 
Infine l'uomo, se onestamente contempla il suo mondo interiore, vuol essere sottratto alla tirannia pungente del male che in passato egli ha compiuto e dal male che, se lasciato a sé solo, prevedibilmente lo vincerà. In sostanza, ha fame di perdono e di grazia.  
 
La «salvezza eterna»  
 
I credenti sanno inoltre che la «salvezza» annunciata dal Vangelo di Cristo ha sì anche un valenza terrestre, ma ha soprattutto una intrinseca dimensione ultramondana ed eterna.  
 
La nostra storia personale non ha un unico sbocco obbligatorio, non ha un lieto fine immancabile come i vecchi cinema americani: duplice è l'esito possibile della nostra avventura, come è significato dalle nitide affermazioni di Gesù (cf Mt 25,34.41; Gv 5,28-29). Abbiamo di fronte a noi una tremenda alternativa: o salvarci o andare perduti; o conseguire o mancare il destino di felicità escatologica che ci è stato assegnato. La posta in gioco, come si vede, è altissima.  
 
Perciò la Chiesa nella sua antica preghiera eucaristica è indotta a supplicare: «Salvaci dalla dannazione eterna e accoglici nel gregge degli eletti» (Canone romano).  
 
L'unico necessario Salvatore  
 
Il secondo convincimento pregiudiziale e ineludibile per chi accoglie la verità del Vangelo si riferisce all'indole assolutamente cristologica della salvezza annunciata ed elargita dall'evento cristiano. Occorre cioè mettere al riparo da ogni esitazione e da ogni ambiguità la certezza che Gesù è l'unico necessario Salvatore di tutti.  
 
Nei primissimi giorni di vita ecclesiale, illuminato e rianimato dal fuoco di Pentecoste, Pietro enuncia il caposaldo esistenziale di ogni non superficiale adesione alla «buona novella»: «In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12).  
 
Specialmente di questi tempi si deve fare attenzione che le encomiabili aperture verso le varie forme di religione e il dialogo doveroso con le diverse culture non cristiane non conducano di fatto a scoronare il Figlio di Dio crocifisso e risorto della prerorogativa, che gli è intrinseca e connaturale, di essere il «Salvatore del mondo» (cf Gv 4,42): del «mondo», cioè della totalità delle creature personali e delle cose.  
 
Da queste aberrazioni il cristianesimo come annuncio ed evento di salvezza sarebbe colpito al cuore e alla fine vanificato.  
 
Oggi molti ritengono che non ci sia un solo percorso per accedere al Dio che salva. Sarebbe perciò insostenibile la pretesa di identificare in Cristo l'unica via alla redenzione umana.  
 
Non è una posizione nuova: alla fine del quarto secolo la troviamo mirabilmente espressa, in polemica con sant'Ambrogio, dal prefetto dell'Urbe Aurelio Simmaco: «Ciascuno ha i propri costumi, ciascuno ha i propri riti; la mente divina assegna alle città culti diversi perché le proteggano; come le anime di coloro che nascono, così vengono distribuiti ai popoli i geni del loro destino... Che importa quale sia la dottrina che ciascuno segue per la ricerca del vero? A un così grande mistero non si può giungere per un'unica strada» (Ep. 72a,8-10).  
 
Il che potrebbe essere sostenibile, tranne nel caso che Dio stesso abbia positivamente stabilito il cammino necessario per arrivare a lui. Così afferma appunto energicamente la Rivelazione cristiana. È la risposta di Ambrogio al suo illustre interlocutore e parente: «"A un così grande mistero - dice Simmaco - non si può giungere per un'unica strada". Ma ciò che voi ignorate, noi l'abbiamo appreso dalla stessa voce di Dio; e ciò che voi cercate attraverso ipotesi, noi lo conosciamo con certezza dalla sapienza stessa di Dio e dalla sua verità» (Ep. 73,8).  
 
Senza dubbio, questa unicità del percorso salvifico - espresso e compendiato nella realtà di Gesù di Nazareth crocifisso e risorto - non è conosciuta da coloro che ancora non sono stati illuminati dal Vangelo; ma sul piano dell'essere anche costoro, quando si salvano, si salvano in virtù della grazia di Cristo. Analogamente, press'a poco, chi cade da un albero cade in forza della legge di gravità anche se ancora non la conosce.  
 
La «volontà salvifica universale»  
 
Allo stesso modo - ed è la terza premessa - non va mai revocata in dubbio o persa di vista la persuasione che c'è in Dio una «volontà salvifica universale».  
 
Il Padre «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). Le parabole «della misericordia» ribadiscono questo principio con la concretezza tipica dei discorsi del Signore: Dio non si accontenta del cinquanta per cento (cf Le 15,11-32: parabola dei due figli); non si accontenta del novanta per cento (cf Le 15,8-10: parabola delle dieci monete); non si accontenta neppure del novantanove per cento (cf Le 15,4-7: parabola della pecora smarrita). Vuole che il suo amore raggiunga la totalità.  
 
Nella visione cristiana è perciò del tutto inaccettabile anche la semplice ipotesi che un essere spirituale possa andare perduto, se non per sua libera decisione.  
 
Nessuno è estromesso dall'azione redentrice e rinnovatrice, assegnata dal Padre al Figlio suo fatto uomo, unicamente in conseguenza di una sua casuale e incolpevole collocazione geografica, etnica o religiosa.  
 
In sintesi  
 
Queste tre verità - appunto perché appartengono a uguale titolo al patrimonio della fede - ci aiuteranno a mantenerci sulla giusta strada nel cammino che abbiamo intrapreso. Non dovremo perciò mai perdere di vista né la necessità per l'uomo di sfuggire al naufragio irreversibile della sua esistenza, approdando definitivamente alla «sorte dei santi nella luce» (cf Col 1,12); né l'assoluta, indispensabile, universale connessione di questo «approdo» con l'azione riscattatrice di Cristo; né la certezza che nel progetto divino nessuno va perduto, se non in conseguenza di una sua personale, consapevole e libera chiusura alla misericordia del Padre che è offerta a tutti.  
 
L'insegnamento della Chiesa antica  
 
Entrando finalmente nel merito del nostro problema, va detto che il nesso tra Chiesa e salvezza non appare mai contestato nell'autentica tradizione ecclesiale.  
 
Di più, riceve ben presto positivamente alcune significative formulazioni. È celebre, ad esempio, l'aforisma icastico di san Cipriano di Cartagine: «Non può avere Dio per padre chi non ha la Chiesa per madre» (De catholicae Ecclesiae imitate 6).  
 
Sant'Ireneo approfondisce il discorso, richiamandosi all'azione dello Spirito Santo: «Nella Chiesa ha posto... ogni effetto operato dallo Spirito: non ne partecipano coloro che non accorrono alla Chiesa, privandosi essi stessi della vita... Perché dove c'è la Chiesa, lì c'è anche lo Spirito di Dio; e dove c'è lo Spirito di Dio, lì c'è la Chiesa e ogni grazia» (Adversus haereses III, 24,1).  
 
Anche sant'Agostino esprime la connessione tra Chiesa e salvezza in una contrapposizione tagliente: «Mundus damnatus, quidquid praeter Ecclesiam; mundus reconciliatus Ecclesia» (Sermo 96,8: «Il mondo condannato è dato da tutto ciò che è fuori della Chiesa; il mondo riconciliato - cioè, salvato - è la Chiesa»).  
 
«Extra Ecclesiam nulla salus»  
 
Ma la frase più diffusa, fino a essere quasi stereotipa, è quella che già abbiamo citato: «Extra Ecclesiam nulla salus» («fuori della Chiesa non c'è salvezza»). Essa ricorre in diversi documenti del Magistero, quali:  
  • la professione prescritta ai Valdesi da Innocenzo III nel 1208: «Extra unam, sanctam, romanam, catholicam Ecclesiam neminem salvari credimus» («al di fuori della Chiesa una, santa, romana, cattolica crediamo che nessuno si salvi»);
 
  • il Concilio Lateranense IV nel 1215 contro gli Albigesi: «Una est fidelium universalis Ecclesia, extra quam nullus omnino salvatur» («Una sola è la Chiesa universale dei fedeli, al di fuori della quale assolutamente nessuno si salva»);
 
  • il Concilio Fiorentino del 1442 nel Decretum prò Jacobitis: «Neminem posse salvari nisi in catholicae Ecclesiae gremio et unitate permanserit» («nessuno si può salvare se non permane nel grembo e nell'unità della Chiesa Cattolica»).
 
 
Origine della frase  
 
Donde nasce il detto - «extra Ecclesiam nulla salus» - che non c'è nella parola di Dio? Così come giace, risale a Origene nella sua meditazione sulla prostituta di Gerico, di cui sta scritto nel libro di Giosuè: «Soltanto Raab, la prostituta, vivrà e chiunque è con lei nella casa» (Gs 6,17). Ed ecco il commento origeniano:  
 
«Fuori di questa casa, cioè fuori della Chiesa, nessuno si salva; se qualcuno sarà uscito fuori, è lui stesso responsabile della sua morte» (In Iesu Nave homiliae 3.5: «Extra hanc domum, id est, extra Ecclesiam nemo salvatur...»).  
 
Origene così sentenziava in Egitto, nell'Africa greca. Negli stessi anni, san Cipriano, scrittore latino dell'Africa Proconsolare, enunciava lo stesso principio: «Salus extra Ecclesiam non est» (Epistulae 73,2: «Fuori della Chiesa non c'è salvezza»).  
 
Le difficoltà della cultura contemporanea  
 
È innegabile che tale asserto suoni particolarmente irritante alla cultura contemporanea. Sicché molti lo espungono dalle loro trattazioni ecclesiologiche, e semplicemente lo trascurano come un residuo caduco di concezioni sorpassate, ormai impresentabile agli uomini del nostro tempo.  
 
Ma è davvero encomiabile questa disinvoltura? Censurando un'affermazione tanto ampiamente documentata nella tradizione ecclesiale, non si corre il rischio di relativizzare ogni dottrina, al punto che nessun insegnamento potrebbe più essere giudicato certo e irrevocabile?  
 
Domandiamoci piuttosto: perché il principio ecclesiologico della salvezza incontra reticenza o addirittura opposizione - più o meno esplicita - non solo nella mentalità mondana ma anche all'interno della riflessione teologica?  
 
Forse tutto deriva dall'idea che si ha della Chiesa. Se prevale una concezione più o meno inconsciamente avulsa da Cristo e dal suo mistero - se, per esempio, si ha della Chiesa una visione prevalentemente giuridica e sociologica - allora l'avversione a quel principio non solo è naturale, ma può apparire perfino doverosa. Ogni riserva invece cade, se si arriva a pensare la Chiesa primariamente come «Christus totus»: allora il consenso diventa logico, pieno, gioioso.  
 
Una prima sostanziale certezza  
 
Se, come abbiamo cercato di chiarirci, la «ecclesialità» è nel suo significato proprio e più adeguato intrinseca relazione con Cristo, allora si fa ovvio e gratificante l'asserto che una qualche appartenenza al «Cristo totale» sia - più che una condizione - una connotazione sostanziale della nostra possibilità di salvezza.  
 
Possiamo quindi ritenere indubitabile che per raggiungere la salvezza, nell'effettivo ordine di cose pensato dal Padre (che ha al suo centro il Cristo Redentore), bisogna appartenere alla Chiesa o almeno avere con la Chiesa qualche relazione salvifica. Ma quali possono essere queste relazioni che connettono in modo salvifico gli uomini al «Corpo di Cristo»?  
 
Precisazioni del Vaticano II  
 
Possiamo a questo proposito raccogliere qualche prezioso bagliore di verità dalla meditazione che il Vaticano II istituisce sulla problematica che qui ci interessa.  
 
Nella Lumen gentium, dopo aver asserito che «questa Chiesa pellegrinante è necessaria alla salvezza» (n. 14), il Concilio precisa: «Perciò non potrebbero salvarsi quegli uomini che, pur non ignorando il fatto che la Chiesa Cattolica è stata fondata come necessaria da Dio per mezzo di Gesù Cristo, non volessero però entrarvi o rimanervi» (ib.).  
 
E quelli che innocentemente ignorassero questo dato di fatto? La risposta è equilibrata e rasserenante: «Coloro che senza loro colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere fattivamente la volontà di Dio conosciuta attraverso il dettame della coscienza, costoro possono conseguire l'eterna salvezza» (n. 16).  
 
Sotto il profilo «morale», soggettivo e concretamente «esistenziale», la risposta è pienamente soddisfacente.  
 
Sotto il profilo teoretico e rigorosamente teologico, resta ancora da vedere se non si richieda in ogni caso qualche tipo di legame ontologico oggettivo con Cristo e qualche forma di appartenenza magari inconsapevole alla sua Chiesa.  
 
In altre parole, si tratta di asseverare se l'antico assioma («extra Ecclesiam nulla salus») possieda o no, nella realtà profonda delle cose, una sua insuperabile validità.  
 
La «radice» della multiforme realtà ecclesiale  
 
La «radice» di tutto il mistero della creazione redenta e rinnovata, cioè della Chiesa, è l'inserimento nell'intimo della vita divina di Gesù di Nazareth umiliato fino alla morte in croce ed esaltato fino alla destra dell'Onnipotente.  
 
Possiamo anzi dire che la «radice» è lui, che essendo veramente e integralmente uomo è anche l'Unigenito del Padre e il comprincipio della missione del Paraclito.  
 
Dal momento che è entrato nel gioco delle relazioni divine uno che è della nostra stirpe e della nostra natura, la vitalità increata ed eterna trabocca e investe l'umanità intera: appunto questo evento ineffabile è la sorgente di tutta la «ecclesialità».  
 
Poiché lo Spirito unico e unificante, inviato dal Risorto, si riversa sulla molteplicità che è propria del creato, innervando la pluralità degli esseri, dei tempi e delle situazioni che caratterizza la nostra «storia», la sua efficacia ha una fenomenologia varia e composita, che ora mette conto di prendere almeno sommariamente in esame, al fine di cogliere in tutta la sua verità e concretezza la realtà ecclesiale, frutto della Pentecoste perenne.  
 
La santità interiore dell'uomo  
 
La prima realtà che è raggiunta dallo Spirito mandato dal Risorto è il mondo interiore dell'uomo: di ogni uomo, perché non è pensabile che ci sia un figlio di Adamo - cioè una creatura esemplata originariamente su Cristo - trascurato da questa elargizione del Signore e Salvatore di tutti.  
 
Lo Spirito è luce, e viene prima di tutto a potenziare le nostre capacità conoscitive. Ogni verità, che germogli nell'intelligenza di un uomo, è riverbero del suo fulgore. Perciò è stato detto giustamente - e san Tommaso lo ripete più volte - che «ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo» (cf lo Pseudo-Ambrogio, in 1 Cor XII, 123: «Quidquid veruni a quocumque dicitur, a Sancto dicitur Spiritu»).  
 
Se poi la mente umana sotto questo sole progressivamente si schiude, viene condotta a poco a poco dallo Spirito alla «verità tutta intera» (cf Gv 16,13); cioè a quella comprensione dell'ordine soprannaturale che è del tutto inconoscibile all'uomo «psichico», cioè all'uomo lasciato alle sole sue forze intellettive (cf 1 Cor 2,14).  
 
Lo Spirito è calore di vita ed è lui a suscitare nei cuori ogni positiva aspirazione, ogni impulso di bene, ogni fremito per la giustizia e per la solidarietà, ogni desiderio di elevazione, ogni iniziale atto d'amore.  
 
Che se si lascia coinvolgere in questo fuoco, senza opporre una resistenza invincibile, l'anima viene a poco a poco portata alla ricchezza ineffabile della vita di carità. Questa nuova capacità di conoscere e di amare, quando arriva a permeare di sé tutto il nostro essere, ci associa agli atti vitali di Dio, ci assimila a lui e, osiamo dire, ci divinizza (cf 2 Pt 1,4). Perciò è detto: «Quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (cf Rm 8,14).  
 
La libera appartenenza a Cristo  
 
Naturalmente questa attività e questa presenza dello Spirito Santo nelle menti e nei cuori non è un'invasione arbitraria, che domina e spadroneggia senza rispettare la libertà di decisione e di orientamento che è propria della creatura spirituale. Al contrario: ogni illuminazione e ogni mozione si attua nel rispetto di quella sinergia di grazia e di libertà che presiede alla nostra vita interiore in ogni suo momento e in ogni suo sviluppo.  
 
Tutto ciò si svolge nel mondo interiore dell'uomo, e può avvenire in ogni cuore che non si chiuda a queste sollecitazioni dall'alto, quale che sia la situazione esteriormente percepibile.  
 
Lo Spirito di Cristo, che è «santo», è sempre in tutti i suoi effetti «santificatore». Entrare nella strada della salvezza significa lasciarsi coinvolgere in un processo di santificazione presieduto e mosso dal Paraclito. Come dice san Paolo: «Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza, per mezzo dello Spirito santificatore» (cf 2 Ts 2,13); e anche san Pietro nota che siamo stati eletti «mediante lo Spirito che santifica» (cf 1 Pt 1,2).  
 
Essere «salvati» vuol dire essere «di Cristo»; ed essere di Cristo vuol dire essere «diventati partecipi dello Spirito Santo» (cf Eb 6,4), come con incisività si esprime la lettera agli Ebrei. «Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo non gli appartiene» (cf Rm 8,9); e non appartenere a Cristo, è essere estranei a ogni possibilità di salvezza.  
 
La santità «soggettiva»  
 
La «santità», nel presente ordine di provvidenza, è una presenza divina nelle creature - più o meno intensa, più o meno radicalmente trasformante - che non si identifica affatto con quella immanenza necessaria dell'Essere infinito e assoluto in tutti gli enti finiti e contingenti, che è implicita nell'idea stessa di creazione.  
 
È una «immanenza del divino», che si attua per un libero e ineguale traboccare dell'intima vita trinitaria: è opera dello Spirito mandato dal Figlio crocifisso e risorto che vive alla destra del Padre. E benché sia una presenza non puramente intenzionale ma ontologica e in sé oggettiva, possiamo qualificarla come «santità soggettiva» nel senso che chiama in causa l'autonoma decisione del soggetto destinatario, e anzi ne postula e include la libera corrispondenza.  
 
La presenza «sacrale»  
 
Ma la fantasia inesauribile di Dio ha disposto che tra gli effetti della Pentecoste perenne ci sia anche una santità che - a distinguerla da quella fin qui descritta - chiameremo «oggettiva». E vogliamo significare con questo termine che la sua permanenza e il suo valore sono per diversi aspetti sottratti all'incerto e volubile coinvolgimento dell'uomo.  
 
A semplificare il linguaggio e a evitare confusioni chiameremo «sacralità» la «santità oggettiva» intesa così. Essa si avvera prima di tutto nella «Sacra Scrittura»: nella Bibbia la verità salvifica è presente con la garanzia dell'autenticità e dell'infallibilità, e resta presente indipendentemente dall'uso più o meno corretto che gli uomini ne possono fare.  
 
Si avvera altresì nelle azioni sacramentali e nei loro effetti permanenti: purché il gesto sia posto nella forma che Cristo ha voluto, la forza del sacramento non è menomata né dalle cattive disposizioni del ministro umano né dallo squallore esterno del rito.  
 
Infine si avvera nella «successione apostolica», che non verrà mai meno fino a che con la venuta del Signore si concluderà l'intera vicenda: i successori degli apostoli potranno anche essere inadeguati e perfino indegni, ma la loro missione resta «sacra»; resta cioè spiritualmente efficace e non cesserà mai, in virtù dello Spirito che è mandato dal Risorto, di essere obiettivamente portatrice di salvezza.  
 
Il sacerdozio del popolo di Dio  
 
Gli elementi «sacri» sono certo di grande rilevanza nel disegno del Padre e ne costituiscono una fortissima caratterizzazione. Sono, per così dire, la via ordinaria offerta agli uomini perché la trasformazione dei cuori operata dallo Spirito e l'assimilazione alla vita divina possano pienamente avverarsi con la massima sicurezza e con privilegiata intensità.  
 
Agli occhi di Dio la «nazione santa», il «sacerdozio regale», il «popolo che egli si è acquistato» (cf 1 Pt 2,9) è quello che, nella sua più completa attuazione, è compaginato dal ministero apostolico, vive con coerenza la vita battesimale, sazia la sua sete di verità alle fonti garantite della parola di Dio.  
 
Che poi l'esuberanza dello Spirito sappia spargere semi cospicui di verità e di grazia in ogni cuore, anche il più remoto dalla realtà «sacrale», questo rivela l'incommensurabilità dell'amore del Creatore per le sue creature e ci dice come siano senza confini l'efficacia del riscatto operato dall'unico Salvatore e la potenza rinnovatrice del suo Spirito; ma non pregiudica il «valore» della «struttura sacrale» nell'ambito del progetto redentivo.  
 
L'irradiamento della salvezza nell'universo, di fatto, avviene perché in mezzo alla varietà delle genti, che sono poste in situazioni concrete diversissime nei confronti del piano primario di Dio, c'è un «popolo sacerdotale», che offrendo quotidianamente il sacrificio della Nuova Alleanza, innalzando le implorazioni ispirategli dal Paraclito che risiede nel cuore dei credenti, proclamando instancabilmente e gioiosamente il Vangelo, sollecita a favore di ogni essere l'elargizione della verità e della grazia.  
 
Così alla nostra vista, potenziata dall'alto, si dispiega e si manifesta la preziosità, la bellezza, la valenza cosmica della Chiesa. Questo - chi lo sa cogliere - è il senso autentico del sacerdozio battesimale.  
 
L'unità dell'universo rinnovato  
 
La molteplicità degli esseri, la complessità della vita spirituale dell'uomo, la pluralità delle situazioni, nonché la stessa natura discorsiva e inizialmente analitica del nostro conoscere ci hanno costretti a dare dell'umanità redenta e rinnovata dalla Pentecoste perenne una presentazione che sembrerebbe delineare una realtà soprannaturale frammentata e dispersa. Ma non sarebbe un'impressione veritiera. Vale ben più ampiamente dell'ambito dei «carismi» l'asserto di san Paolo: «Vi sono diversità di doni, ma uno solo è lo Spirito» (cf 1 Cor 12,4).  
 
Lo Spirito è essenzialmente sintetizzante: tutto raccoglie in unità e tutto raduna nella comunione salvifica con colui che è la «radice» unificante di tutte le cose esistenti, cioè con il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico Salvatore del mondo.  
 
La Chiesa - ecco l'ultimo approdo della nostra ricerca sulla sua natura sostanziale - è la sintesi reale di tutti gli effetti pentecostali; cioè di quanto, per opera dello Spirito, a Cristo è vitalmente connesso e assimilato. È, se siamo riusciti a spiegarci, l'insieme organico di tutto il «sacro» e di tutto il «santo».  
 
Dopo questa lunga esplorazione si fa probabilmente un po' più chiaro che cosa comporti, nella verità delle cose, assegnare alla Chiesa la qualifica di «Cristo totale» e perché appunto nella connessione con il «Christus totus» si possa e si debba indicare la ragione e la causa della «salvezza» umana; una connessione che, come vedremo, non è univoca e si attua in diversa modalità e diversa misura.  
 
Concludendo  
 
Dovrebbe a questo punto essere chiaro il legame che necessariamente sussiste tra la «ecclesialità» e la «salvezza» di ogni uomo.  
 
Abbiamo capito: «extra Ecclesiam nulla salus». Non c'è salvezza possibile al di fuori della Chiesa; che vuol dire, in concreto: al di fuori del rapporto col Signore Gesù che sta alla destra del Padre ed è il principio della effusione dello Spirito capace di connettere ogni creatura con Cristo e di dar vita alla «ecclesìa».  
 
Ma allora la questione fondamentale diventa: chi è «dentro» e chi è «fuori» della Chiesa? E, prima ancora, che cosa vuol dire essere «dentro» e che cosa vuol dire essere «fuori»? A questi interrogativi cercherà di rispondere il terzo momento della nostra meditazione teologica.  

III. IL MISTERO DELL'APPARTENENZA ECCLESIALE

 
L'appartenenza ecclesiale  
 
Appartenere o no alla Chiesa - proprio perché è una condizione che si risolve in ultima analisi in quella di essere o no connessi col Signore Gesù e assimilati a lui - determina positivamente o negativamente nell'uomo il suo rapporto reale con la salvezza: è il senso di ciò che siamo venuti dicendo.  
 
Ma quali sono le forme e quale la variabile intensità di questa appartenenza? Sull'argomento della «appartenenza» ecclesiale ci sono prospettive che, pur essendo legittime e utili, sono però insufficienti. Tale è, ad esempio, l'ottica puramente giuridica o sociologica o comportamentale.  
 
La pertinenza di queste valutazioni è innegabile e la loro rilevanza non è da sottovalutare; ma non qui troveremo la risposta adeguata e soddisfacente ai nostri interrogativi. È necessario che ci si collochi piuttosto entro la contemplazione dell'intero disegno di Dio: al mistero della «ecclesialità» - che è, come s'è detto, il mistero stesso di Cristo colto nella sua integralità - consegue il «mistero dell'appartenenza ecclesiale».  
 
Ed è, appunto, un «mistero»: la nostra esplorazione si muovera cioè entro l'ambito della medesima realtà «eccedente» (la «res») che è il termine ultimo dell'atto di fede e dunque anche l'oggetto proprio della ricerca teologica.  
 
È «mistero» altresì perché quale sia la «ecclesialità» effettiva di una creatura umana resta quaggiù per larga parte il segreto di Dio.  
 
A favorire la chiarezza del nostro dire, gioverà prendere in successiva considerazione prima il grado minimo e, per così dire, la forma più blanda dell'inerenza salvifica nella Chiesa; poi il suo grado massimo e la sua perfetta attuazione.  
 
Il «grado minimo»  
 
La Lumen gentium insegna che gli uomini tutti -in virtù di nient' altro che della loro stessa umanità, indipendentemente dal fatto che abbiano o non abbiano di fatto ricevuto il Vangelo - «sono ordinati al popolo di Dio» (n. 16). Ed è una verità indiscutibile.  
 
Noi però, alla luce della dottrina cristocentrica, possiamo attribuire a questa primaria e universale «ordinazione» - che in definitiva è attinenza intrinseca al «Christus totus» - uno spessore molto più consistente della pura potenzialità o dell'assegnazione a tutti da parte di Dio di un unico soprannaturale destino.  
 
Ogni uomo - essendo stato pensato in Cristo e preordinato a lui - con lui possiede nella sua propria natura un nesso reale inalienabile. Certo, alla radice di tutto questo c'è la libera volontà del Padre e l'unità del suo disegno. Ma la volontà di Dio non è mai pura intenzionalità che rimanga estrinseca ai suoi oggetti (come è spesso la nostra); e non dà origine a legami di indole meramente «giuridica» o «morale»: le decisioni divine si manifestano sempre in effetti «ontologici».  
 
Ogni figlio di Adamo è già immagine incoativa di Cristo; in questo senso, nessun uomo è estraneo al Signore crocifisso e risorto o è totalmente avulso dalui. Senza dubbio è un'immagine solo abbozzata, che attende e chiede di essere rifinita; di più, è un'immagine sfigurata e avvilita dal dominio universale del peccato: perciò essa anela intrinsecamente (prima ancora che questa «implorazione dell'essere» si faccia consapevole e personale) al restauro e alla sublimazione.  
 
Sotto questo profilo, di nessuna creatura umana si può mai dire in modo assoluto che «non è di Cristo» (e quindi che sia del tutto sconnessa dalla realtà ecclesiale); come del resto di nessuna creatura umana si può dire che sul piano dell'essere non sia congiunta al suo Creatore e non gli appartenga, quale che sia lo stato di degrado cui possono averla condotta le interiori violazioni aberranti e gli atti perversamente deliberati.  
 
Il «grado massimo»  
 
La perfetta appartenenza di un uomo alla Chiesa si ha invece quando il suo rapporto col Signore Gesù nello Spirito Santo è senza lacune e senza allentamenti, sicché il «ripristino» e la rinnovazione del suo essere si possono dire compiuti. È la condizione di chi è oggettivamente configurato a Cristo dal «carattere» impresso in lui dai sacramenti dell'iniziazione; ma al tempo stesso è interiormente trasformato dalla fede, dalla speranza e dalla carità, è nutrito nell'eucaristia dal banchetto sacrificale che lo incorpora perfettamente a Cristo; e vive con cordiale docilità nei confronti dei pastori, con umile e lieta fierezza, con totale coerenza di comportamento - nell'unico gregge affidato dal Signore all'apostolo Pietro e al collegio dei Dodici.  
 
Questo è il caso limite dell'appartenenza. È uno stato esemplare, che però finché si è pellegrini sulla terra non si avvera mai con assoluta compiutezza. Gli si avvicinano i «cattolici che vivono in grazia di Dio», e più ancora i santi quando arrivano a praticare in grado eroico la sequela del Redentore crocifisso e le virtù evangeliche.  
 
A questo traguardo ideale si deve tendere tutti senza stanchezze: è il cammino dell'ascesi cristiana; cammino che non è mai concluso fino a che varcheremo la soglia del Regno dei cieli.  
 
È da notare che gli elementi che entrano a comporre l'appartenenza ecclesiale, tutti, per intrinseco dinamismo, mirano ad accendere e ad alimentare l'amore; quell'amore santificante che ha come destinatario suo proprio Cristo; e, in Cristo, sia Dio sia le immagini vive di Dio e di Cristo che sono i fratelli. Ed è questo amore che alla fine, con la sua presenza almeno implicita nell'animo umano, determina il conseguimento della salvezza eterna e anzi ne è una condizione necessaria.  
 
Le situazioni intermedie  
 
Tra il grado minimo e il grado massimo che abbiamo cercato di indicare, si dispiega una gamma praticamente infinita di situazioni, a seconda che l'uno o l'altro dei vari elementi di connessione e di assimilazione con Cristo siano in atto o siano latitanti.  
 
A misura della rilevanza e della estensione di questi nessi si accresce il «valore» di una persona agli occhi di Dio e «si rende sempre più sicura la sua vocazione e la sua elezione» (cf 2 Pt 1,10).  
 
Ovviamente soltanto gli occhi di Dio arrivano davvero a vedere le cose come stanno. Agli occhi umani sono percepibili unicamente quei dati di appartenenza che hanno una loro connaturale visibilità, come la vita sacramentale, lo statuto canonico dei cristiani, la pubblica professione di fede.  
 
Nessuno è totalmente «dentro»  
 
Dovrebbe risultare chiaro a questo punto che nessuno, finché è pellegrino sulla terra, può convincersi di appartenere alla Chiesa secondo la totalità del suo essere. Noi siamo «nella Chiesa» rigorosamente a misura che siamo stati dallo Spirito Santo congiunti e assimilati al Signore Gesù che sta alla destra del Padre; e dunque solo in quanto siamo raggiunti - coi suoi effetti di santificazione e di «sacralità» - dall'effusione pentecostale.  
 
Invece, quanto nei nostri pensieri, nei nostri desideri, nella nostra sensibilità, nella nostra condotta non è stato ancora permeato dalla luce e dal fuoco del Paraclito, rimane estraneo al «mistero della ecclesialità».  
Ciascuno di noi possiede nel suo universo interiore ampi continenti sui quali non è ancora stata eretta la croce; ciascuno di noi - nella sua intelligenza, nella sua volontà, nella sua affettività - ha dentro di sé delle isole di paganesimo dove la Chiesa non è stata ancora impiantata.  
 
La vita cristiana - cioè la vita battesimale e, in ultima analisi, la vita eucaristica - si sviluppa attraverso una progressiva «chiesificazione»; vale a dire in un crescente estendersi e rinvigorirsi della nostra trasformante connessione con Cristo e con il Padre mediante lo Spirito.  
 
Nessuno è totalmente «fuori»  
 
Verosimilmente si deve anche ritenere - e in ogni caso è consentito sperare - che non si dia uomo alcuno sguarnito di ogni sia pur tenue valenza ecclesiale e posto interamente al di fuori della realtà del «Christus totus». E non solo per la sua natura inalienabile di creatura esemplata sul Figlio di Dio crocifisso e risorto, ma altresì per l'azione dello Spirito che «spira dove vuole» (cf Gv 3,8) e sa trarre scintille di verità da ogni intelligenza e sintomi di buona volontà da ogni cuore che non gli sia del tutto impermeabile.  
 
L'esuberanza del Dono pentecostale fonda in noi la fiducia in una sua efficacia sugli animi che non sia limitata se non da una ribellione o da una chiusura deliberata. Tutto ciò non deve però far dimenticare che il Paraclito soltanto nella realtà «sacrale» ha un luogo certo e identificabile di attività, una vitalità sovrabbondante, un vigore garantito e immancabile.  
 
In un'agricoltura avvalorata da tutto un sistema di canali, di rogge e di roggette, è infallibilmente assicurata l'acqua necessaria alla sete dei prati: possiamo qui vedere raffigurata l'azione dello Spirito immanente nella struttura «sacrale».  
 
Ma poi piove anche sui campi più aridi e più lontani: così, dove vuole e come vuole lo Spirito fa scendere sull'umanità le sue grazie.  
 
Responsabilità morale e salvezza  
 
Le manchevolezze della inerenza ecclesiale di un uomo - in particolare se riferite all'assenza dei nessi «sacrali» con Cristo mediante lo Spirito - possono coesistere con la buona fede del soggetto e quindi essere incolpevoli, quali che siano la loro estensione e la loro gravità.  
 
Ma nel momento in cui ci si rende conto che l'uno o l'altro elemento - ad esempio la verità della successione apostolica, del primato di Pietro, dell'esistenza dei sette sacramenti, dell'elenco completo dei libri della Sacra Scrittura - è incluso nel piano divino e sostenuto dal divino volere, scatta l'obbligo di coscienza di accoglierlo e di onorarlo. Diversamente ci si pone da sé fuori della strada salvifica.  
 
Se invece l'incompiutezza dell'appartenenza cattolica non può essere ricondotta né prossimamente né remotamente alla responsabilità personale, non c'è - come è ovvio - colpevolezza. In questi casi il Signore saprà portare ugualmente a salvezza, facendo in modo che i nessi con Cristo che di fatto già sussistono suppliscano ai nessi che purtroppo ancora non ci sono.  
 
L'oggettiva anomalìa di tali situazioni stimolerà ogni credente a favorirne il più presto possibile il superamento; vale a dire, ad adoperarsi con tutte le forze perché il Vangelo di Cristo sia annunciato a tutte le creature (cf Me 16,15), il progetto del Padre sia integralmente reso noto e operante per tutti, la Chiesa Cattolica sia riconosciuta da tutti come 1'«universale sacramento della salvezza».  
 
L'insegnamento della Lumen gentium  
 
A questo proposito, è utile rileggere quanto è chiaramente insegnato dalla Lumen gentium. «Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa - è un passo che già abbiamo citato -, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna» (n. 16).  
 
«Ma molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore; oppure, vivendo e morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti alla disperazione finale.  
 
Perciò per promuovere la gloria di Dio e la salvezza di tutti costoro, la Chiesa, memore del comando del Signore che dice: "Predicate il Vangelo a ogni creatura", promuove con ogni cura le missioni» (ib.).  
 
«È spinta infatti dallo Spirito Santo a cooperare perché sia mandato ad effetto il piano di Dio, il quale ha costituito Cristo principio di salvezza per il mondo intero. Predicando il Vangelo, la Chiesa attira gli uditori alla fede e alla professione della fede, li dispone al battesimo, li toglie dalla schiavitù dell'errore e li incorpora a Cristo, affinché crescano in lui per la carità fino alla pienezza» (n. 17).  
 
«La Chiesa prega e lavora nello stesso tempo, affinché la pienezza del mondo intero passi nel popolo di Dio, corpo del Signore e tempio dello Spirito Santo, e in Cristo, capo di tutti, sia reso ogni onore e gloria al Creatore e Padre dell'universo» (ib.).  
 
I «battezzati non cattolici»  
 
Esiste «un solo battesimo», sicché ogni lavacro «dall'acqua e dallo Spirito» - se è compiuto validamente - incorpora sempre nel «Christus totus». Quanti perciò sono davvero battezzati - quale che sia la denominazione della comunità nella quale il rito viene celebrato - sono inseriti nell'unica Chiesa del Signore.  
 
Ma dall'unica Chiesa non si esce, se non per un atto personale di apostasia o di eresia o di scisma; un atto che deve essere anche soggettivamente colpevole. Fino a che questa rottura non è consapevolmente consumata, come si può pensare che il legame battesimale oggettivamente sia infranto?  
 
«Il battesimo costituisce quindi il vincolo sacramentale dell'unità, che vige tra tutti quelli che per mezzo di essi sono stati rigenerati. Tuttavia il battesimo di per sé è soltanto l'inizio e l'esordio, poiché esso tende interamente all'acquisto della vita in Cristo. Pertanto il battesimo è ordinato all'integra professione della fede, all'integrale incorporazione nell'istituzione della salvezza, come lo stesso Cristo ha voluto, e infine all'integra inserzione nella comunione eucaristica» (Unitatis redintegratio 22).  
 
È fatale perciò che l'appartenenza ecclesiale non si mantenga piena, se la vita battesimale ha poi un seguito sacramentale e catechetico oggettivamente difettoso.  
 
Le varie denominazioni cristiane  
 
Un uomo singolo appartiene alla Chiesa a misura che è raggiunto e trasformato dallo Spirito; e dunque la solidità della sua inerenza salvifica è data simultaneamente dalla sua santità soggettiva e dalla sua santità oggettiva.  
 
Invece i segni dell'ecclesialità di un'aggregazione di cristiani stanno nella effettiva consistenza della «sacralità». Una Chiesa è pienamente identificabile come tale, là dove si trovano radunati tutti gli elementi «sacri» necessari e irrinunciabili; e cioè: la successione apostolica, i sacramenti, la Sacra Scrittura.  
 
Quando qualcuno di questi elementi manca o è lacunosamente presente, la realtà ecclesiale esteriore risulta alterata in proporzione della manchevolezza che si riscontra. Si potrà parlare di «Chiesa», ma solo per un'analogia più o meno lontana.  
 
È dunque ben diversa la «verità» e la pertinenza del termine «Chiesa» (che per cortesia e per consuetudine invalsa non si nega praticamente a nessuna denominazione cristiana) quando è riferito alle comunità orientali separate e quando è riferito alle aggregazioni nate dalla Riforma: nelle prime l'identità ecclesiale è quasi completa; nelle altre l'assenza della successione apostolica, la perdita della maggior parte dei sacramenti, l'invalidità della eucaristia e l'incompletezza dei Libri Sacri attenuano fortemente la loro «ecclesialità» sostanziale.  
 
Preminenza del «segno eucaristico»  
 
Dei vari elementi «sacri», quello che è più determinante in questa questione è senza dubbio la «successione apostolica». Una Chiesa non nasce «dal basso»; nasce come effetto di una missione che investe la terra a partire dalla donazione del suo Unigenito da parte del Padre.  
 
È «umanità salvata»; e non è per opera della miseria umana che possiamo essere riscattati dalla nostra miseria. Tutto ciò vale soprattutto in riferimento all'eucaristia. Perché si dia un vero battesimo la misericordia del Signore ha stabilito che basti l'intenzione del ministro di collegarsi almeno implicitamente alla volontà salvifica del Padre.  
 
Invece per il mistero del «Corpo dato» e del «Sangue versato», che si fa presente sotto i segni del pane e del vino, l'intervento del ministero apostolico è di rigore. Non c'è eucaristia, se non c'è la presidenza del sacerdozio ordinato che collega il rito con il mandato di Cristo.  
 
Ma proprio qui, nel sacrificio della Nuova Alleanza che è posto nelle nostre mani, sta la manifestazione più alta e quasi il compendio di ogni autentica «ecclesialità».  

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

 
Riconoscenza e gioia  
 
Il guadagno più prezioso di questa indagine laboriosa - e anzi riassuntivo, per qualche aspetto, di ogni approfondimento che si è potuto raggiungere - sta nell'esplicita presa di coscienza della rilevanza della Chiesa nella vicenda umana e nella rinascita in noi di un forte sentimento di gioia e di riconoscenza per l'appartenenza ecclesiale di cui siamo stati gratificati.  
 
L'ecclesiologia del resto non può avere, a ben riflettere, altra natura che quella di essere una esplorazione ammirata e giubilante del «disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (cf Ef 1,10).  
 
E poiché ogni conoscenza - e massimamente la conoscenza approfondita della «res», cioè della realtà totalizzante cui sempre approda ogni atto di fede - possiede un valore assoluto e in se stessa ha ragione di fine, ogni ulteriore indagine parrebbe superflua. Ci sembra però che questo modo di accostarci al mistero della Chiesa irradia di fatto una sua luce su tutta la vita cristiana e la colora di sé. Su tutta la vita cristiana: su quella del singolo e su quella delle comunità, sulle opzioni interiori di ogni fedele e sulle scelte operative dei pastori, sull'impegno apostolico e sulle forme corrette di dialogo culturale.  
 
Il senso della «comunione cosmica»  
 
Il cristiano che si lascia permeare da questa visione delle cose acquista la benefica consapevolezza di essere il soggetto e il beneficiario di una comunione trascendente, che coinvolge il cielo e la terra: una consapevolezza senza attenuazioni e senza eclissi.  
 
«Io in loro e tu in me» (Gv 17,23): ecco, nella asciutta ed essenziale formulazione giovannea, il segreto, la fonte, la legge intrinseca di questa «koinonìa». San Paolo non vuol dire probabilmente altro quando scrive: «Tutte le cose sono vostre. Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (cf 1 Cor 3,22-23).  
 
È dunque una «comunione cosmica», nella quale entrano - con le Tre Persone divine - la Vergine Maria, le schiere degli angeli, tutti i figli di Adamo a misura che lo Spirito ha suscitato in essi una positiva risposta all'amore del Padre; e anzi ogni altra creatura a misura che è stata resa «sacra» dallo Spirito.  
 
Il non sentirsi più un frammento, recluso nella sua finitezza e impaurito dalla sua provvisorietà, e il sentirsi invece rassicurato e dilatato in questa «totalità» è per l'uomo la scoperta di una fortuna non prevista né immaginata.  
 
Così rasserenato e spiritualmente arricchito, egli è collocato in uno stato di iniziale felicità, che infallibilmente raggiungerà la pienezza nella visione disvelata della vita eterna.  
 
Irrilevanza del numero  
 
Per chi si mantiene in questa prospettiva è assolutamente irrilevante che nella vicenda storica i cristiani socialmente censibili siano tanti o pochi, accolti o misconosciuti, prevalenti o in declino. Il «piccolo gregge» è sempre immenso ai nostri occhi se sono illuminati dalla fede, dal momento che al Padre «è piaciuto di dargli il suo Regno» (cf Le 12,32).  
 
Non sembra anzi assente dal pensiero di Gesù la prospettiva di una forte riduzione del numero verificabile dei credenti prima che la storia giunga alla sua conclusione. Egli lascia senza risposta l'interrogativo inquietante: «Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Le 18,8).  
 
Nel «discorso escatologico» preannunzia che «per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà» (cf Mt 24,12). Dal canto suo, san Paolo prevede che prima del «giorno del Signore» «dovrà avvenire l'apostasia» (cf 2 Ts 2,3).  
 
Alla luce della «comunione cosmica», che è implicita nel mistero ecclesiale, acquista una certa comicità l'angoscia che talvolta prende i fedeli, di vedersi confinati quasi in un «ghetto» e di essere marginali nella società dominante: è un curioso «ghetto», dove noi abitiamo e godiamo col Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, con i Cherubini e i Serafini, gli Angeli e gli Arcangeli, con i giusti di tutte le età e con quanti appartengono già mistericamente alla Gerusalemme celeste.  
 
In quest'ottica si capisce come non abbiano un interesse sostanziale le inchieste, i sondaggi, gli «indici di gradimento» circa la Chiesa e il suo insegnamento, circa le norme etiche che propone, circa le sue opere e la sua testimonianza.  
 
Non dal «mondo» ma dal «Regno» provengono le consonanze o le dissonanze che vanno prese sul serio. E le consonanze o dissonanze dal Regno si apprendono non mediante le indagini di opinione o le ricerche di mercato, ma con l'ascolto della parola di Dio e di quanti lungo i secoli si sono fatti eco conforme e autorevole della divina Rivelazione.  
 
Naturalmente non si vuol dire con ciò che la conoscenza della situazione e della mentalità prevalente tra i nostri contemporanei sia senza utilità pastorale. Si consiglia soltanto di non dimenticare mai che la «verità» della Chiesa Cattolica, del suo «Credo», del suo magistero morale non è condizionabile dal numero delle adesioni e dagli «indici di gradimento».  
 
A questo proposito, la frase di Gesù: «Volete andarvene anche voi?» (cf Gv 6,67) - oggi largamente censurata nella cultura teologica e pastorale - dovrebbe tornare a essere illuminante e ispiratrice.  
 
La misericordia gratuita e la miseria pretenziosa  
 
Circolano degli equivoci singolari a proposito delle legittime conclusioni che si possono trarre dall'ansia apostolica della Chiesa, dall'immensa volontà salvifica di Cristo, dallo stupefacente amore del Padre per noi.  
 
L'uomo - vedendo che il suo Creatore con tanta passione lo cerca, dispiegando a suo favore la donazione salvifica del suo Figlio unigenito e l'instancabile azione pastorale della Chiesa - si immagina che Dio abbia bisogno di lui.  
 
E, come avviene a chi è troppo coccolato, si mette a fare il ritroso e l'esoso. È un punto che ciascuno di noi deve chiarire bene con se stesso, perché sappia apprezzare giustamente la straordinaria misericordia del Signore nei suoi confronti e perché la sua interiore povertà si mantenga umile, sottomessa, non presuntuosa.  
 
Certo, la Chiesa, che mi è madre, desidera ardentemente la mia partecipazione consapevole e attiva all'esistenza cristiana, individuale e comunitaria. Ma non ha nessun bisogno di me, lei che è la Sposa appagata del Signore dell'universo.  
 
Sono io che ho un bisogno estremo di stare in comunione con lei, perché le mie tenebre siano dissolte, perché le mie colpe siano perdonate, perché il mio egoismo lasci il posto alla carità.  
 
Certo, Gesù Cristo - che è il mio Salvatore, morto in croce per me - aspetta con fervore che io mi arrenda alla sua grazia e mi innesti in lui come il tralcio alla vite. Ma sta benissimo anche senza di me, lui che è il Primo e l'Ultimo e il Vivente (cf Ap 1,17-18).  
 
Sono io che senza di lui non vivo, senza di lui smarrisco il mio destino, senza di lui non trovo più significato né mèta plausibile al mio enigmatico pellegrinaggio terreno.  
 
Certo, Dio - il Padre che mi ha chiamato all'esistenza per potermi amare - vuole fortemente che io l'adori in spirito e verità (cf Gv 4,23). Ma la sua inalienabile beatitudine non è neppure scalfita dalla mia eventuale latitanza o dalla mia ribellione. Sono io a non poter trovare felicità lontano da lui, che è il senso, il fine, la gioia di tutte le cose.  
 
«Nella Chiesa e in Cristo Gesù»  
 
«A colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni nei secoli dei secoli! Amen» (Ef 3,20-21).  
 
+Card. Giacomo Biffi  
 
2020-10-24
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