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Vexilla regis prodeunt - Canto Gregoriano
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L'inno venne composto da San Venanzio Fortunato in occasione dell'arrivo presso la regina Santa Radegonda di una grossa reliquia della Santa Croce, a lei inviata dall'imperatore Giustino II.  
 
La regina Radegonda si era ritirata presso l'abbazia della Santa Croce da lei costruita vicino a Poitiers; per essa aveva cercato una reliquia del santo legno.  
 
All'arrivo della reliquia la regina chiese a Fortunato di scrivere un inno per la processione di traslazione alla chiesa. L'inno fu cantato quindi per la prima volta a Poitiers nel 568, ed era composto di otto strofe.  
 
L'inno viene oggi pregato nei Vespri della Settimana Santa e nella celebrazione dell'Esaltazione della Santa Croce (14 settembre)  
 
Precedentemente l'inno era cantato anche il Venerdì Santo durante la processione con cui il Santissimo Sacramento era portato dall'Altare della Reposizione all'Altare.  
 
Le strofe 2, 4 e 7 sono omesse nell'uso liturgico. La dossologia che si trova nelle ultime due strofe non è di Fortunato, ma di un qualche poeta posteriore.  
 
L'inno è sempre stato di grande importanza nella storia della musica. Era tradizionalmente cantato nelle processioni precedute dalla croce.  
 
L'inizio dell'inno è ripreso da Dante Alighieri nella prima terzina del canto XXXIV dell'Inferno:  
 
«"Vexilla regis prodeunt inferni  
verso di noi; però dinanzi mira",  
disse 'l maestro mio "se tu 'l discerni".»
 
Esecuzione : Monaci Norbertini dell'Abbazia di San Michele (Silverado, California)  
 
 
Vexilla regis prodeunt Avanzano i vessilli del Re
Vexilla regis prodeunt  
Fulget crucis mysterium  
Quo carne carnis conditor  
Suspensus est patibulo
I vessilli del Re avanzano,  
rifulge il mistero della Croce,  
sul cui patibolo è appeso il  
creatore della carne, fattosi carne
Quo vulneratus insuper  
Mucrone diro lanceae  
Ut nos lavaret crimine  
Manavit unda et sanguine
E su questo [patibolo], ferito  
dalla punta crudele di una lancia,  
[egli] effuse acqua e sangue,  
per lavarci dal peccato.
Impleta sunt quae concinit  
David fideli carmine  
Dicens: in nationibus  
Regnavit a ligno deus.
Sono pieni di ciò che ha preparato  
Canto fedele a David  
che dice: nelle nazioni  
Dio regnava dall'albero.
Arbor decora et fulgida  
Ornata regis purpura  
Electa digno stipite  
Tam sancta membra tangere.
Albero splendente di nobiltà,  
[fu] adornato dalla porpora del re,  
scelto come tronco degno di  
toccare un corpo così santo!
Beata cuius brachiis  
Saecli pependit pretium  
Statera facta corporis  
Praedamque tulit tartari.
Beato [albero]! Dai suoi bracci  
pendette il riscatto del mondo;  
divenne bilancia del corpo e  
portò il bottino dell'inferno.
O crux, ave, spes unica:  
Hoc passionis tempore  
Auge piis justitiam  
Reisque dona veniam.
Ti salutiamo, o croce, unica speranza!  
in questo tempo di passione,  
accresci la grazia ai devoti  
e cancella le colpe ai peccatori.
Te summa deus Trinitas  
Collaudet omnis spiritus  
Quos per crucis mysterium  
Salvas rege per saecula. Amen
O Trinità, sorgente di salvezza,  
ti lodi ogni spirito;  
e sostieni in eterno coloro  
che salvi per il mistero della croce. Così sia.
 
 
 
 
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La versione cantata da Harpa Dei:  
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Riflessione del teologo don Inos Biffi sull'inno "Vexilla Regis prodeunt"

 
 
Incominciano con la Settimana Santa i giorni della prolungata e appassionata contemplazione della Croce. Vi risuona, in particolare, il grande inno del Vexilla Regis.  
 
L’autore, Venanzio Fortunato – nato a Valdobbiadene (530/540) e morto vescovo di Poitiers (600/610) -, viene considerato come "il creatore della mistica simbolica della Croce, di cui più tardi si faranno cantori ispirati san Bonaventura o Iacopone da Todi" (Henry Spitzmuller).  
 
La composizione, in dimetri giambici acatalettici, fu cantata la prima volta a Poitiers, nel 568, in occasione della deposizione di un frammento della Santa Croce nella chiesa del monastero a essa dedicata, retto dall’abbadessa Radegonda, che aveva ricevuto quel frammento dall’imperatore Giustino II.  
 
I versi, pur non privi di qualche enfasi e retorica, sono animati da una fede ardente e pervasi da una profonda ispirazione. E a emergere subito con chiarezza è il senso salvifico della Croce, insieme dolorosa e gloriosa.  
 
Al nostro giudizio terreno, la croce appare un ignominioso strumento di morte, un orrendo marchio di infamia, un segno di insensatezza e di impotenza. Qui, invece, la Croce è esaltata come "il vessillo del Re" (vexilla Regis), come "un luminoso mistero" (fulget Crucis mysterium).  
 
Il pensiero va alla "Parola della Croce", di cui parla Paolo, la quale è "stoltezza per quelli che si perdono", ma "potenza di Dio" "per quelli che si salvano".  
 
"I Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza – dichiara l’apostolo – noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani" (cfr. 1 Corinzi, 1, 18ss).  
 
La Croce, dal profilo umano, è quanto di più debole e ignobile si possa pensare; e, pure, Dio l’ha scelta per manifestare la sua sapienza e la sua potenza. Dio ha scelto quel legno funesto come il trono della regalità del suo Figlio.  
 
Pilato credeva di irridere Gesù, presentandolo con una "corona di spine" e con addosso "un mantello di porpora" (Giovanni, 19, 5); in realtà, non faceva che esprimere il sorprendente disegno di Dio, che dall’eternità aveva predestinato come Re dell’universo il Crocifisso risorto e come esemplare dell’uomo l’umanità gloriosa del Figlio morto sulla Croce.  
 
Sorprendentemente, sulla Croce non falliva, ma al contrario, di là da ogni ragionevole attesa, si compiva e aveva successo esattamente la scelta divina, presente da sempre nel cuore della Trinità.  
 
A Dante, che contemplava estatico la "luce eterna", parve di intravvedere dipinta nel "lume riflesso", il Verbo, la "nostra effigie" (Paradiso, 33, 131): ossia il mistero dell’Incarnazione.  
 
Potremmo precisare: in quel "lume riflesso", era impresso il mistero della passione e della risurrezione del Signore, o il Crocifisso glorioso.  
 
La regalità del Risorto da morte – per il quale tutto era stato ed era voluto – non si giustappose, infatti, a riparare un imprevisto divino, dovuto all’uomo, ma era la ragione per la quale tutto da principio era stato creato.  
 
Per questo Venanzio Fortunato può avviare felicemente il suo inno, cantando la luce che risiede e promana dal mistero della Croce.  
 
Al patibolo – prosegue il poeta, fissando il suo sguardo pietoso sui particolari di quella crocifissione – è appeso il corpo del "Creatore del mondo": "Straziato nelle carni / con le mani e i piedi trapassati dai chiodi / vi si è immolato come vittima del nostro riscatto" (redemptionis gratia / hic immolata est hostia).  
 
Poi viene "il colpo di lancia crudele", che "squarcia il suo fianco" (Quo vulneratus insuper / mucrone diræ lanceæ): ne "fluisce sangue e acqua", come da fonte "che lava ogni crimine" (ut nos lavaret crimine / manavit unda, sanguine).  
 
Sul fatto si era soffermata l’attenzione dell’evangelista Giovanni, che lo attesta con speciale autorevolezza: la tradizione cristiana vi lesse un evento ricco di simboli: dal Crocifisso, vero Agnello pasquale, scaturisce lo Spirito, e sgorgano i sacramenti, in particolare il lavacro battesimale e il sangue eucaristico.  
 
Lo sguardo è quindi rivolto all’albero della Croce, di cui è elogiata, con profusione un po’ barocca di immagini, la luminosità, il pregio, il profumo, la dolcezza e la fecondità.  
 
In apparenza è uno squallido legno; in realtà è un "albero rivestito di bellezza e di fulgore", "adorno del sangue come di porpora regale" (Arbor decora et fulgida / ornata regis purpura), "scelto tra tutti per essere il tronco degno / di portare membra tanto sante" (electa, digno stipite / tam sancta membra tangere!).  
 
Un "albero beato, sulle cui braccia aperte / fu sospeso il prezzo della redenzione del mondo" (Beata, cuius bracchiis / pretium pependit sæculi!), simile a "bilancia", su cui venne pesato il corpo di Cristo, e che strappò la preda all’inferno. Un albero che emana un profumo soave, e stilla una dolcezza più gustosa del miele, e su cui maturano frutti copiosi.  
 
Segue, a conclusione, il solenne saluto alla Croce, e alla Vittima su di essa sacrificata come sopra un altare: luogo dove la Vita sopporta la morte, e la morte elargisce la vita: "Salve, Croce adorabile! / Su questo altare muore / la Vita e morendo ridona / agli uomini la vita" (Salve ara, salve victima / de passionis gloria / qua Vita mortem pertulit / et morte vitam reddidit).  
 
È il paradosso del progetto salvifico: sperimentata dal Figlio di Dio, la morte diviene sorgente di vita: l’onnipotenza divina mirabilmente trasforma uno strumento di rovina in mezzo di redenzione.  
 
"Salve, Croce adorabile – ripete con slancio rinnovato il poeta – sola nostra speranza!" (O crux, ave spes unica); "Concedi perdono ai colpevoli / accresci nei giusti la grazia" (piis adauge gratiam / reisque dona veniam).  
 
Quando apparve il contenuto del "mistero nascosto da secoli e da generazioni" (Colossesi, 1, 26), si rivelò come la gloria del Crocifisso, e come la regalità di Cristo sul trono della Croce. Gesù stesso aveva dichiarato che, una volta innalzato, avrebbe tratto tutto a sé (cfr. Giovanni, 12, 32).  
 
E, infatti, tutte le creature, quelle del cielo e quelle della terra, portano l’impronta di Gesù risuscitato da morte, essendo state progettate dal Padre fin dall’origine a sua immagine. "Sul legno avviene la regalità di Dio", canta un verso splendido di Venanzio (Regnavit a ligno Deus).  
 
Non stupisce, allora, che san Massimo di Torino, con esegesi fantasiosa e, pure, acuta e suggestiva, abbia ricercato e rinvenuto "il sacramento della Croce" e la presenza del suo segno nell’intero universo: nella "vela sospesa del marinaio all’albero", nella "struttura dell’aratro, con il suo dentale, i suoi orecchi e il manico", nella disposizione "del cielo in quattro parti", nella "posizione dell’uomo quando innalza le mani": "Da questo segno del Signore è solcato il mare, è coltivata la terra, è governato il cielo, sono salvati gli uomini".  
 
Tutto il mistero che ci avvolge è racchiuso nel Crocifisso glorioso. Tutta la nostra aspirazione è di poterlo comprendere, per poter vivere.  
 
Inos Biffi  
 
Fonte Tu es Petrus  
 
2023-09-06
Autore : San Venanzio Fortunato
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