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La crisi ariana della Chiesa del IV secolo
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Ario

Quando il mondo si ritrovò ariano

 
Un secolo di crisi acuta e totale disorientamento: vescovi contro vescovi, una pletora di simboli della fede ambigui, imperatori che pensavano di imporre l’unità della Chiesa a suon di decreti. I fedeli si ritrovavano con vescovi ariani che sostituivano quelli ortodossi deposti; i quali poi venivano reintegrati, per essere poi nuovamente deposti.  
 
Il Concilio di Nicea avrebbe dovuto in teoria compattare i pastori attorno al Simbolo niceno, approvato il 19 giugno 325, che proclamava la verità del Figlio consustanziale al Padre: «di una sola sostanza con il Padre (ciò che in greco si dice homousion)» (Denz. 125). Dei 318 Padri presenti, quasi tutti approvarono il testo. Incluso il vescovo che sarà poi tra i più grandi agitatori della confusione, Eusebio di Cesarea (265-340ca), il quale, appena concluso il Concilio, si era tuttavia premurato di dare ai propri fedeli un’interpretazione del Simbolo non conforme agli intenti del concilio niceno.  
 
I Padri avevano altresì approvato l’anatema conclusivo, che colpiva appunto quanti avrebbero affermato che «il Figlio di Dio [è] da un’altra ipostasi o sostanza o creato» (Denz. 126). L’interpretazione corretta del testo, nel contesto del Simbolo e dell’intento dei Padri di condannare il prete Ario e la sua dottrina, portava a ritenere il termine “ipostasi” come sinonimo di essenza, come reso nel testo latino; ma “ipostasi”, in greco, significa anche persona. Questa ambiguità letterale porterà molti vescovi ortodossi ad opporsi all’affermazione del concilio, ingrossando così le fila di quanti invece vi si opponevano perché avevano una dottrina diversa.  
 
Dunque, dopo l’assise del 325 ci si aspettava l’unità e la concordia nella Chiesa; ne venne invece non solo la divisione, ma anche una maggiore diffusione dell’arianesimo e di una nuova posizione errata, che per comodità chiamiamo semi-arianesimo.  
 
L’arianesimo originario affermava un’eresia trinitaria e cristologica. Solo il Padre è veramente Dio, mentre il Figlio è la prima delle creature, strumento e intermediario della e per la creazione. Lo Spirito Santo sarebbe invece la «prima produzione del Verbo». Sul versante cristologico, gli ariani sostenevano che il Verbo non aveva assunto la natura umana integrale, ma solo la carne, e dunque non era né vero Dio né vero uomo.  
 
È per prendere posizione su questa eresia che venne convocato il concilio niceno. Ma la condanna ebbe l’effetto collaterale di stimolare versione eterodosse più sottili e perciò più insidiose, maggiormente in grado di attecchire anche tra quei vescovi che avevano preso parte al concilio e ne avevano approvato gli atti.  
 
La strategia ariana seguente al concilio si fece più astuta e cauta per riuscire ad ottenere l’appoggio del potere imperiale, con il pretesto di stabilire l’unione tra l’episcopato. È chiaro che gli imperatori auspicavano una tale unione, che avrebbe chiaramente avuto riflesso positivo sulla coesione dell’impero; e per questo pensarono di proporsi come centro di unità della cristianità.  
 
Ma pensare la Chiesa con categorie politiche e meramente pratiche non ha mai portato buoni frutti, perché la Chiesa è una realtà sacramentale, ordinata, divinamente istituita; l’attentato alla sua natura e costituzione, per quanto nobili possano essere le finalità, finisce sempre per creare ancora più problemi.  
 
Il punto di convergenza di convinzioni molto diverse tra loro era di fatto il rifiuto del termine homousios, presente nel simbolo del concilio niceno. E, di conseguenza, l’aspra lotta contro coloro che questa formulazione intendevano difendere a qualsiasi costo, in primis il grande sant’Atanasio.  
 
Ne vennero una serie di simboli apparentemente consonanti con la formula nicena, ma che appunto, si proponevano di escludere l’homousios, e cercando invece di far cadere sul concilio del 325 l’accusa di sabellianesimo, ossia di negare la differenza delle tre persone. Sinodi e concili vennero convocati per sfornare nuove formule e gettare ogni genere di accusa contro Atanasio.  
 
A nutrire il fronte di opposizione al concilio di Nicea vi erano anzitutto gli anomei, ossia la prosecuzione dell’arianesimo più puro, i quali proclamavano che il Figlio era dissimile da Dio, non era Dio. Tra loro emergevano personaggi di grande intelligenza, come l’aristotelico Aezio di Antiochia, e di grande calibro, come Eudossio di Costantinopoli (300-370), che divenne sotto Costanzo (317-361) vescovo della città imperiale. O come Eunomio vescovo di Cizico (+393), contro il quale san Basilio Magno (329-379) scrisse il famoso trattato Contro Eunomio.  
 
Poi c’erano gli omeusiani (o omoiusiani), che sostituirono l’homousios niceno che indicava la stessa essenza del Figlio e del Padre, con il termine homoiousios, che affermava invece la somiglianza del Figlio al Padre, quanto all’essenza. Ora il nuovo termine, che aveva uno iota in più rispetto a quello niceno, si prestava ad essere molto elastico nell’interpretazione: per questo ottenne molto consenso.  
 
Anche da parte dell’imperatore Costanzo, che in un primo momento aveva accolto e imposto una formula più strettamente anomea. Tra i personaggi più importanti di questa corrente, troviamo Basilio d’Ancira (+362).  
Dunque, il termine escogitato dagli omeusiani poteva essere interpretato in senso ortodosso, ossia come l’affermazione della divinità del Figlio: il Verbo era solo simile al Padre, perché non era il Padre, pur essendo Dio.  
 
Inoltre, poteva sembrare persino correggere l’ “equivoco” niceno, in quanto la dichiarazione della consustanzialità del Figlio con il Padre sembrava spingere verso l’annullamento della distinzione tra i due; dubbio che appariva corroborato ‒ come si è visto ‒ dalla condanna, presente nel Simbolo di Nicea, dell’affermazione che il Figlio sarebbe di un’altra ipostasi rispetto al Padre (dove ipostasi stava per sostanza/essenza, non per persona).  
 
Ancora più insidiosa fu una nuova metamorfosi degli ariani, che divennero omeisti. Dopo infinite discussioni e dopo i concili di Rimini e di Seleucia, entrambi nel 359, si giunse al concilio di Costantinopoli (360), nel quale si approvò una formulazione ancora più elastica: si decise di non parlare più né di ousia (sostanza) né di hypostasis (essenza o persona, a seconda dei contesti), giustificando questa scelta con l’apparentemente ragionevole motivazione che non si tratta di termini contenuti nelle Sacre Scritture.  
 
Dunque, perché rischiare la divisione della Chiesa, quando nemmeno le Scritture esigono il ricorso a precisi termini filosofici? L’opzione troverebbe oggi concordi molti sostenitori di un errato ecumenismo, che vorrebbero rendere non vincolanti formulazioni del dogma che ricorrono alle categorie della filosofia greca, come, per esempio, la transustanzazione.  
 
La formula fu accolta dall’imperatore Costanzo e imposta all’accettazione di tutti: la pena, per i vescovi ostinatamente niceni, era la deposizione dalle loro sedi e l’esilio. In effetti si trattava di una formula perfetta per instaurare una pace meramente umana: il Figlio era considerato simile al Padre in ogni cosa.  
 
Si poteva intendere “simile” (homoios) nel senso di uguale nella divinità, ma diverso come persona; interpretazione che fu data sia dai niceni, sia dagli omeusiani; oppure simile nel senso che il Figlio non è veramente Dio come il Padre, ma simile a lui. Di fatto, praticamente tutti i vescovi orientali l’accettarono. È in riferimento a questa débâcle, che san Girolamo prununciò la famosa esclamazione: «E il mondo, sgomento, si ritrovò ariano».  
 
Si può già intuire che, soprattutto rispetto agli omeusiani, la vera posta in gioco era “ecclesiale”. Perché il vero punto di discordia tra ortodossi e semi-ariani riguardava l’autorità di un concilio ecumenico e dunque l’autorità che la Chiesa ha di vincolare la fede dei credenti nella spiegazione del dogma. Ma ci ritorneremo.  
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Sant'Atanasio

La persecuzione ariana e i vescovi che resistettero

 
Lo stratagemma omeista, architettato soprattutto da Acacio, vescovo di Cesarea (+ 366), successore di Eusebio in quella sede, aveva avuto lo scopo di guadagnare appoggi sia tra i cattolici d’Occidente che tra i semi-ariani d’Oriente. L’idea di una formula che fosse più scritturistica, scevra da qualsiasi terminologia della metafisica greca, appariva come particolarmente ragionevole.  
 
L’idea del Figlio simile in tutto al Padre si mostrava più elastica e, di per sé, non contraddittoria rispetto all’homousion del Concilio di Nicea. Di fatto, si trattava però di rifiutare la formula del Concilio; tant’è vero che, oltre all’accettazione della nuova formula, veniva richiesto di sottoscrivere la condanna di sant’Atanasio, che dell’homousion era di fatto divenuto il difensore principale. Tanto più che la propaganda ariana presentava il termine niceno come una formulazione che favoriva l’eresia in senso sabelliano, ossia un’eresia che non manteneva la chiara distinzione tra il Padre e il Figlio. Atanasio poi veniva accusato di ogni genere di nefandezza.  
 
Si evidenzia quanto affermavamo in conclusione del precedente articolo: la crisi ariana è stata in fondo uno scontro sull’interpretazione della formulazione nicena. Quelli che per comodità chiamiamo “atanasiani” non facevano altro che difendere l’interpretazione ortodossa della formula nicena: il Figlio è della stessa sostanza del Padre, ma non è il Padre.  
 
Sul fronte dell’“ermeneutica della rottura” del tempo, abbiamo due schieramenti: da un lato quelli che volevano respingere quella formula, perché non volevano affermare che il Figlio e il Padre sono uno nella sostanza divina; dall’altro, quelli che sostenevano che quella formula non era sufficientemente precisa per frenare lo scivolamento interpretativo in direzione sabelliana, ossia era ritenuta incapace di mantenere la distinzione tra il Padre e il Figlio.  
 
Quest’ultimo schieramento poté ben presto ricevere ‒ ed esibire ‒ una formidabile “conferma” alla propria tesi. Uno dei grandi campioni della definizione nicena, Marcello, vescovo d’Ancira (285-374 ca), antiariano fino al midollo, finì precisamente per sostenere una tale unità sostanziale del Padre e del Figlio da non riuscire più a scorgerne la distinzione. E lo fece sulla base della sua interpretazione del Concilio di Nicea.  
 
I cattolici, nonostante le posizioni di Marcello fossero più che sospette, cercarono di difenderlo e lo reintegrarono nella sede episcopale di Ancira, dopo che era stato deposto dall’ariano Eusebio di Nicomedia. Ma alla fine dovettero lasciarlo andare per la propria strada, divenuta ormai sempre più chiaramente indifendibile. La sua dottrina venne definitivamente condannata dal canone 8 del Tomus Damasi del Sinodo di Roma (382).  
 
Anche un discepolo di Marcello di Ancira, il vescovo di Sirmio, Fotino (+376) era un vescovo ritenuto di parte nicena, ma cadde in un’eresia simile a quella del suo maestro. Si trattava di ghiotte occasioni per diffamare i cattolici e cercare di piazzare vescovi ariani sulle sede episcopali; decisamente dei colpi dolorosi in una situazione già molto critica per i sostenitori della posizione cattolica.  
 
La situazione era quanto di peggio si potesse immaginare: simboli ambigui; vescovi deposti, poi riammessi, poi deposti; vescovi niceni che poi cadevano nell’eresia opposta all’arianesimo. La disputa non rimase nel campo puramente speculativo: ben presto si passò ai fatti, con persecuzione ed esilio per quanti non accettavano le nuove formulazioni anti-nicene.  
 
Entrò infatti in campo l’imperatore Costanzo, che cercò di forzare la mano ai vescovi latini contro Atanasio. Riuniti in concilio ad Arles, i vescovi chiesero come condizione previa che il concilio riunito da Costanzo in Oriente, ad Alessandria, riconoscesse il credo niceno e condannasse Ario.  
 
La risposta fu un’azione violenta dell’imperatore contro i vescovi d’Occidente, che capitolarono, scomunicando Atanasio, incluso l’inviato di papa Liberio, Vincente di Capua. Due anni dopo, nel 355, i nuovi legati del Papa, Eusebio di Vercelli e Lucifero di Cagliari, chiesero un nuovo concilio; ma anche questa volta, il Concilio, riunito a Milano, condannò quasi all’unanimità Atanasio, sotto la minaccia imperiale di esilio per i dissidenti. Oriente e Occidente si stavano unificando per condannare un vescovo ortodosso.  
 
Secondo san J. H. Newman (cf. Gli ariani del IV secolo), questi vescovi pativano una forte disorganizzazione, che non resse alle manovre ariane e alla forza imperiale. E anche un temperamento debole e una certa mancanza di allenamento dell’intelligenza contribuirono alla débâcle. Ma non fu solo il momento dei pavidi, degli incerti, dei confusi, dei traditori; fu anche il tempo del coraggio, dello zelo, della dottrina illuminata.  
 
Il Signore non fece mancare alla sua Chiesa vescovi fedeli che, di fronte all’alternativa imposta da Costanzo, “o la firma della condanna di Atanasio o l’esilio”, scelsero l’esilio. Esilio che era accompagnato da pressioni, stenti e persino torture, per cercare di “persuadere” i presuli a cambiare posizione.  
 
La Chiesa di Milano, che ospitava il Concilio, si può gloriare del grande vescovo Dionigi, che dapprima sembra abbia apposto la propria firma; poi, resosi conto della gravità della situazione per consiglio di Eusebio di Vercelli, si ravvide. Fu esiliato in un piccolo villaggio della Cappadocia, dove morì intorno al 360, senza poter vedere la fine del momentaneo trionfo ariano. Al suo posto, la sede di Milano fu occupata per quasi vent’anni dal vescovo ariano Aussenzio, fino al 373, anno della sua morte.  
 
Il secondo campione della fede fu Lucifero, vescovo di Cagliari (+370 ca), che papa Liberio scelse come suo legato imperiale, dopo il tradimento di Vincente. Lucifero finì esule dapprima in Siria, nella provincia di Germanicia, poi ad Eleuteropoli, in Palestina e infine nella Tebaide. Lucifero è venerato come santo in Sardegna, ma secondo alcuni autori assunse posizioni rigoriste, che lo portarono a rifiutare il perdono a coloro che avevano in qualche modo ceduto all’arianesimo.  
 
Il terzo vescovo che resistette alla minaccia ariana fu Eusebio di Vercelli. Straordinario apostolo del Piemonte e della Valle d’Aosta, fu anch’egli inviato da papa Liberio all’imperatore Costanzo. Intervenendo al Concilio di Milano, Eusebio richiese che, prima di ogni atto, si sottoscrivesse il Simbolo niceno. Al rifiuto dei vescovi presenti, egli rispose con un altro rifiuto: quello di sottoscrivere la condanna di Atanasio e scelse così l’esilio.  
 
Ilario, vescovo di Poitiers, non era presente a Milano, ma alzò la voce contro l’esilio di vescovi legittimi e cattolici. Bastò questo perché Costanzo spedisse anche lui in esilio, in Frigia, dove già era stato esiliato un altro vescovo, san Paolino di Treviri, che si era rifiutato di condannare Atanasio al precedente Concilio di Arles. Ma dalla Frigia, sant’Ilario venne allontanato, perché, tutt’altro che rassegnato, continuava a denunciare le macchinazioni degli eretici e a difendere l’ortodossia. Rispedito in Gallia, si diresse verso Milano per contrastare il vescovo Aussenzio, usurpatore della sede che era di Dionigi.  
 
Rimandiamo al prossimo articolo la posizione di papa Liberio nei confronti dell’arianesimo e di Atanasio.  
 
In nome della pace della Chiesa e dell’Impero, in nome della comunione tra i vescovi, la verità veniva calpestata, Cristo sacrificato, il giusto Atanasio condannato, i vescovi ortodossi esiliati e perseguitati. Se ne trovarono solo cinque, oltre ad Atanasio, che resistettero, insieme ad un pugno di chierici e di anonimi laici, che si ritrovarono senza i propri pastori e con le sedi episcopali occupate da ariani o da vescovi, che, pure non essendo ariani, avevano accettato di aderire alle loro trame o avevano ceduto alla minaccia imperiale. Ma a Dio bastò questo piccolo numero, per rovesciare l’empietà e ridare vigore alla sua Chiesa.  
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La crisi ariana e le ipotesi sul cedimento di papa Liberio

 
La crisi ariana è stata un ginepraio di dichiarazioni e formule, che spesso non si opponevano direttamente all’insegnamento di Nicea, ma che pure non erano in grado di esprimere il senso contenuto nell’homousion.  
 
Erano appunto formule ambigue, frutto di continui sinodi e concili, che avevano come unico scopo quello di promuovere un’unificazione ed una comunione non nella verità, ma nell’indifferenza alla verità. Questo, almeno, era il fine del potere imperiale, che di fatto imponeva ai Vescovi la propria agenda, alla quale la dottrina doveva essere adattata.  
 
Non furono pochi, tra quelli che accettarono il compromesso semi-ariano, a cedere alle persuasioni e alle minacce dopo aver lottato con coraggio; e, grazie a Dio, a correggersi dopo la caduta. Non è chiaro cosa riuscì a piegare la resistenza di questi pastori, ai quali dobbiamo comunque moltissimo.  
 
Certamente ebbe una forte incidenza il peso delle prolungate fatiche e delle crescenti privazioni, unite alla percezione che tanta sofferenza appariva sterile. Di non minore importanza fu vedere la quasi totalità dei propri fratelli nell’episcopato accettare compromessi che avevano tutta la parvenza di essere ragionevoli; perché in fondo non si trattava di aderire all’arianesimo, rigettando così il contenuto dell’insegnamento di Nicea, ma solo di rifiutarne una parola. Sul versante della condanna di Atanasio, la tentazione era ancora più insidiosa: non poteva essere legittimo sacrificare il vescovo di Alessandria per il bene della Chiesa? E Atanasio non stava forse esagerando nell’opporsi, oltre che agli ariani, anche agli eusebiani?  
 
Tra questi campioni della fede, che caddero sotto il peso della stanchezza e dei sotterfugi, non si può tacere di Osio, vescovo di Cordova (257ca-358). Mantenne la fede sotto la tremenda persecuzione di Diocleziano e Massimiano, e fu uno dei principali attori della conversione dell’imperatore Costantino (274-337).  
 
Ideatore del Concilio di Nicea, ne presiedette i lavori, insieme ai legati pontifici, e fu il grande propugnatore dell’homousion, che, a Concilio chiuso, difese strenuamente dalle macchinazioni ariane; di fonte alla minacce di Costanzo, che voleva portarlo a condannare sant’Atanasio e sacrificare la formula nicena, preferì l’esilio a Sirmio. Osio aveva ben chiaro non solo il problema dottrinale in gioco, ma anche la grave minaccia alla libertà della Chiesa.  
 
È lo stesso Atanasio a riportare, nella sua Historia Arianorum ad Monachos (VI, 44), la correzione che Osio rivolse a Costanzo: «Non vi intromettete negli affari della Chiesa; e non dateci comandi a riguardo, ma imparateli da noi. Dio ha messo nelle vostre mani il potere; a noi ha affidato il governo della sua Chiesa; e come colui che volesse rubarvi il potere si opporrebbe all'ordine di Dio, così temete anche da parte vostra che, assumendo su di voi il governo della Chiesa, vi rendiate colpevole di una grave offesa (…). Come dunque non è lecito a noi esercitare un governo terreno, così voi, o imperatore, non avete alcuna autorità di bruciare incenso».  
 
Osio aveva ormai cent’anni quando venne spedito in esilio. Ma non gli vennero risparmiate umiliazioni, minacce e violenze di ogni genere. Alla fine, cedette: non firmò la condanna di Atanasio, ma sottoscrisse la seconda formula di Sirmio, che bandiva l’uso dell’homousion. Poco prima di morire abiurò il suo errore.  
 
Una vicenda analoga fu quella che coinvolse papa Liberio. Successore di Giulio I (+352) sulla cattedra di Pietro, resse la Chiesa dal 352 al 366, anni roventi della lotta contro l’arianesimo e le ingerenze di Costanzo. Liberio aveva sempre difeso sia la formula nicena che Atanasio, resistendo a tutte le calunnie che venivano sollevate contro di lui, inclusa quella di omicidio.  
 
Comprendeva bene che la posta in gioco era il Simbolo niceno e difendeva perciò il diritto di Atanasio di potersi difendere dalle accuse. Fu questa la linea indicata ai suoi legati, quando parteciparono al concilio di Arles (353); i quali però, come si è visto, tradirono la fiducia del Papa. Fu ancora questa la linea che Liberio tenne al concilio di Milano (355), nonostante il cedimento di quasi tutti i vescovi e l’esilio per i pochi fedeli.  
 
Questa fermezza gli costò cara. L’imperatore inviò l’eunuco Eusebio con lo scopo di far cadere Liberio, sia con regali che con minacce; di fronte al suo rifiuto di firmare la condanna di Atanasio, Eusebio lo fece rapire e portare a Milano da Costanzo. Nuova resistenza e nuova sanzione: l’esilio in Tracia. La lontananza da Roma, le privazioni, le seduzioni dei semi-ariani e le minacce alla fine ebbero la meglio.  
 
Atanasio difese la memoria di Liberio, definendolo «uomo ortodosso, che odiava l’eresia ariana» (Historia Arian., V, 35), pronto a rivolgere queste parole all’imperatore, in sua presenza: «Cessate di perseguitare i cristiani; non tentate di introdurre l’empietà nella Chiesa tramite me. Siamo pronti a soffrire qualunque cosa, pur di non essere chiamati pazzi ariani» (V, 39).  
 
Si sono fatte molte ipotesi, anche ingenerose, su cosa portò Liberio a cadere (V, 41), dopo due anni di esilio. La fonte a lui più vicina è proprio sant’Atanasio, il quale, pur non potendo tacere del fatto, tuttavia riconobbe in esso non tanto un’adesione all’eresia, quanto un cedimento di fronte a continue prove tremende.  
 
Così nell’Apologia contra Arianos (VI, 89): «sebbene solo per un po’, per paura delle minacce di Costanzo, sembra non abbia resistito; tuttavia la grande violenza e il potere tirannico esercitato da Costanzo e gli innumerevoli insulti e colpi a lui inflitti, sono la prova che ciò non avvenne perché egli rinunciò alla mia causa, ma cedette loro per un periodo a causa della debolezza della vecchiaia, non riuscendo a sopportare le frustate».  
 
Nella Historia Arianorum (V, 41), sant’Atanasio non loda il cedimento, ma comprende la debolezza; perché la caduta di Liberio «dimostra solo la loro condotta violenta, l'odio di Liberio contro l'eresia e il suo sostegno ad Atanasio, finché gli fu permesso di esercitare una libera scelta. Infatti ciò che gli uomini sono costretti con la tortura a fare contro il loro primo giudizio, non deve essere considerato atto volontario di coloro che sono nella paura, ma piuttosto dei loro aguzzini».  
 
È probabile che ad aver indotto Liberio a sottoscrivere una formula ambigua sia stata anche la forte tentazione di poter così riportare la pace nella Chiesa e rientrare a Roma. Liberio poteva essere stato sedotto dall’idea che una lunga persecuzione comporta sì molti martiri, ma anche molte defezioni. E questo pensiero, unito alla situazione di estrema sofferenza in cui si trovava ormai da tempo, ebbe la meglio su di lui.  
 
È tuttavia doveroso chiarire che, ad oggi, non è ancora chiaro quale formula Liberio abbia sottoscritto. Secondo Trevor G. Jalland (cf. The Church and The Papacy: A Historical Study) è assai probabile che si trattasse di due formule distinte, firmate a un anno di distanza, che non erano formalmente eretiche.  
 
Di fatto, non solo le chiese ortodosse e quelle copte venerano Liberio come santo, ma anche san Basilio Magno lo menziona come il«beato Liberio» (Lettera 263) e papa Siricio si riferisce a lui come al «mio predecessore di venerabile memoria».  
 
Comunque sia, rientrato a Roma, Liberio ritrovò la sua fermezza e respinse le decisioni del concilio di Rimini (359), durante il quale, ancora una volta, sotto minacce e pressioni, i circa 400 vescovi presenti firmarono una formula che rigettava l’homousion.  
 
Con la morte di Costanzo (361), diversi vescovi omeusiani chiesero e ottennero di potersi riunire alla Sede Apostolica, a patto di accettare la formula nicena e rifiutare le altre formule ambigue. Ma qui si annidava una nuova tremenda prova per la fede cattolica.  
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Fonti :  
 
Quando il mondo si ritrovò ariano  
La persecuzione ariana e i vescovi che resistettero  
La crisi ariana e le ipotesi sul cedimento di papa Liberio  
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2023-11-08
Autore : Luisella Scrosati Fonte : La Nuova Bussola Quotidiana
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