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Il monotelismo e la grave leggerezza di papa Onorio
La questione del Papa eretico  
 
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Papa Onorio - Mosaico a sant'Agnese fuori le mura

Il monotelismo e la grave leggerezza di papa Onorio

 
La scorsa volta abbiamo visto il tentativo da parte di Giustiniano (482-565) di riunificare religiosamente l’impero con la condanna dei Tre Capitoli. Ne venne fuori una divisione ancora più profonda ed estesa. D’altra parte, anche l’arianesimo prima e il semi-arianesimo poi vennero imposti per decreti imperiali. E sappiamo quali furono le nefaste conseguenze.  
 
A circa cinquant’anni dallo scisma dei Tre Capitoli, un nuovo imperatore decise di battere la stessa strada e imporre un’unificazione religiosa a scapito della verità. L’imperatore Eraclio (575-641), in un delicatissimo momento storico nel quale l’Impero romano d’Oriente rischiava di sgretolarsi sotto l’assalto dei Sasanidi e degli Arabi, ai quali vanno aggiunte le invasioni longobarde nell’Italia bizantina, avvertiva più che mai il bisogno di compattare religiosamente l’Impero. L’obiettivo lodevole era quello di ricondurre i monofisiti all’unità della Chiesa, cercando di diffondere il più possibile il monoenergismo.  
 
Di cosa si trattava? In sostanza, era un nuovo tentativo di far digerire le decisioni del Concilio di Calcedonia ai monofisiti, bilanciandole con l’affermazione che, sebbene in Cristo vi fossero due nature, uno era però il principio di operazione. Dunque μονος (monos) - ἐνέργεια (enérghĕia): una sola energia o operazione. Sebbene il monoenergismo potesse essere inteso in senso ortodosso, il suo linguaggio non era tuttavia chiaro. In particolare, era così insistente l’affermazione dell’unica Persona divina come principio delle operazioni, che si perse per strada il fatto che ognuna delle due nature, considerate nella loro integrità ‒ da cui l’espressione “vero Dio e vero uomo” ‒, aveva operazioni proprie.  
 
Come dicevamo, era appunto l’imperatore a sponsorizzare questa dottrina, sostenuto da Ciro, vescovo di Phasis (+641 ca), che Eraclio decise di porre a capo della prestigiosa sede di Alessandria, e dal patriarca di Costantinopoli, Sergio I (565 ca - 641). A drizzare le antenne sulla possibile pericolosità di questa nuova posizione fu san Sofronio di Gerusalemme (560 ca - 638), che subito scrisse a Sergio; il patriarca di Costantinopoli propose questa soluzione: che nessuna delle due parti parlasse più né di una né di due operazioni nel Signore Gesù Cristo.  
 
Sergio non voleva far altro che appoggiare la politica di unificazione di Eraclio: bisognava dunque tacere di quanto poteva in quel momento dividere. Perciò, nel 634, emise il decreto Psephos, che provvide ad inviare a papa Onorio I (585-638), probabilmente per anticipare un’analoga mossa di Sofronio. Nel decreto, come promesso, non si parlava di una volontà in Cristo, ma lo si lasciava intendere.  
 
A cadere nella trappola fu proprio Onorio. Nella sua risposta al patriarca Sergio, non solo accettava di non entrare nella questione, che secondo lui andava lasciata semplicemente alla competenza dei “grammatici”, ma di fatto adoperò l’infelice formula ἓν θέλημα (hen thélema), ossia “una volontà”, terminologia ricorrente nella piuma di Ciro di Alessandria: «noi confessiamo una volontà del Signore Gesù Cristo, dal momento che chiaramente la nostra natura fu assunta dalla divinità, nella quale non c’è peccato».  
 
Nel contesto, la lettera del Papa non era eretica; Onorio intendeva semplicemente dire che in Gesù Cristo non esistono quelle due volontà in lotta tra loro, di cui parla san Paolo in Rm 7, 14-25. Ma di fatto quell’espressione sdoganò propriamente il monotelismo (da μονος, monos e θέλημα, thélema).  
 
Nel 638, Eraclio firmò un documento, l’Echtesis, scritto dal patriarca Sergio, che riprendeva sostanzialmente lo Psephos, ma questa volta si sentiva “autorizzato” dalla risposta del Papa: impediva di quantificare le volontà in Cristo, ma nel contempo affermava in lui una volontà, senza confusione di nature. In Oriente praticamente tutti i patriarcati accettarono l’Echtesis; quando esso però giunse a Roma, nel 640, venne condannato da tre papi: Severino (+640), Giovanni IV (+642) e Teodoro I (+649).  
 
Quella di Onorio fu una grave leggerezza. La questione delle due volontà di Gesù Cristo era di estrema importanza, come dimostrerà poi con estrema chiarezza san Massimo il Confessore (580 ca - 662), e non poteva essere liquidata con una decisione politica: se Cristo è vero mediatore, allora dev’essere veramente Dio e veramente uomo; ma l’integrità della natura umana esige una volontà distinta da quella divina.  
 
Che umanità sarebbe quella privata della volontà? Tacere dunque su questo punto, significava tacere della realtà della mediazione del Signore. C’è poi un altro aspetto, strettamente connesso: già durante la crisi ariana, era emerso con chiarezza il principio secondo cui tutto quello che Gesù Cristo ha assunto è stato redento. Ora, se la volontà umana non fosse stata assunta, non sarebbe stata salvata. E dunque proprio la facoltà più importante dell’uomo sarebbe fuori dalla salvezza operata dal Signore.  
 
Errore nell’errore, Onorio, nella risposta al patriarca, aveva utilizzato proprio quell’espressione incriminata.  
 
Le condanne dei Papi indussero il nuovo imperatore Costante II (630-668) ad evitare lo scontro diretto con Roma; decise così di emanare nel 647 un altro editto, il Typos, nel quale proibiva la discussione tra monotelisti e ditelisti. Ma papa san Martino I non accettò questa ulteriore intromissione dell’imperatore e decise di convocare un Concilio in Laterano (649), che condannò il monotelismo, l’Echtesis e il Typos.  
 
La rappresaglia imperiale divenne allora feroce: dapprima tentò di uccidere il Papa, servendosi dell’esarca Olimpo. Fallito il tentativo, deportò Martino a Costantinopoli, dove lo incarcerò e ordinò di trascinarlo mezzo nudo tra le strade della città. Venne quindi spedito in Crimea, dove morì di stenti. Martire della fede.  
 
Anche san Massimo, la mente più brillante, che supportò il lavori del Concilio del 649, dovette pagare caramente la sua difesa dell’ortodossia. Venne portato a forza a Costantinopoli, dove subì vari processi e diversi esili.  
 
Nel 662, rifiutandosi fermamente di accettare il Typos, venne dapprima flagellato, poi gli furono amputate la mano destra e la lingua. Quindi venne spedito in Crimea, insieme al monaco Anastasio e all’apocrisario omonimo. Nel giro di tre mesi, morirono tutti e tre per stenti.  
 
Papa Onorio verrà in seguito condannato da tre concili ecumenici e da almeno due papi. Per la prima volta nella storia della Chiesa un papa, dopo la sua morte, veniva dichiarato eretico.  
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Il Concilio di Costantinopoli III

Onorio e la questione del Papa eretico

 
Il Concilio di Costantinopoli III (680-681), sesto concilio ecumenico, aveva condannato definitivamente la dottrina monotelita e aveva parimenti colpito papa Onorio I (vedi qui), per la sua infelice lettera al patriarca di Costantinopoli Sergio I: «Abbiamo provveduto ad anatematizzare anche Onorio, che è stato Papa dell’antica Roma, perché, nella lettera da lui scritta a Sergio, abbiamo trovato che ha seguito in tutto la sua posizione e ha confermato i suoi empi insegnamenti».  
 
Papa sant’Agatone (575-681) aveva mandato al Concilio una lettera dogmatica nella quale forniva l’unica interpretazione cristologica possibile sulla questione delle volontà in Cristo: la dottrina che doveva essere tenuta era quella diatelita; ma a colpire è il fatto che in questa lettera, Agatone rivendicava l’ultima parola in virtù del fatto che la Chiesa di Roma «mai si è allontanata dalla via della verità per prendere la direzione dell’errore» in virtù della promessa fatta da Cristo a Pietro che la sua fede non sarebbe mai venuta meno.  
 
Era la posizione che un secolo prima aveva contraddistinto la regula fidei di papa Ormisda (450-523), conosciuta anche come formula Hormisdæ: «Prima condizione per la salvezza è quella di custodire la norma della retta fede e non deviare in alcun modo da quanto è stato stabilito dai Padri. E non si può trascurare l'espressione del Signore nostro Gesù Cristo, che dice: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa”. Questa affermazione è provata dai fatti, perché nella sede apostolica la religione cattolica è stata sempre conservata pura».  
 
I padri conciliari non fecero una piega: nella comunicazione all’imperatore (Prosphoneticus), avevano confermato chiaramente che, in quella lettera, «Pietro ha parlato attraverso Agatone»; inoltre la lettera di Agatone venne accolta e posta come parte degli atti conciliari, quegli stessi atti che condannavano Onorio. I padri conciliari non avvertivano dunque alcun conflitto tra l’affermazione che la Sede Apostolica è la garante dell’ortodossia e l’eresia di Onorio.  
 
Anche papa san Leone II (611-683), nella lettera all’imperatore Costantino IV, aveva confermato gli atti del Concilio e la condanna di Onorio, «che non ha cercato di santificare questa Chiesa Apostolica con l’insegnamento della tradizione apostolica, ma con profano tradimento ha permesso che la sua purezza venisse contaminata»; e lo faceva proprio in virtù dell’autorità data a Pietro e ai suoi successori di confermare o respingere degli atti conciliari.  
 
Circa due secoli più tardi, durante il Concilio di Costantinopoli IV (869-870), di fronte ai vescovi bizantini che evocavano proprio l’errore di Onorio per contestare l’infallibilità della Sede Apostolica, papa Adriano II (792-872) faceva notare che quel fatto non metteva in discussione la potestà del romano Pontefice di essere giudice di tutti i pastori della Chiesa e di non poter essere giudicato da nessuno.  
 
Semplicemente, Onorio poté essere giudicato dopo la sua morte, perché accusato di eresia, «unica ragione per cui anche gli inferiori possono legittimamente giudicare i propri superiori, rigettando liberamente le loro pericolose opinioni». Tuttavia, Adriano subito precisava che «né i patriarchi né gli altri vescovi [avevano] diritto di emettere alcun giudizio su di lui a meno che l'autorità della stessa prima sede pontificia non ne avesse dato il consenso». Su questo scriveremo un articolo dedicato.  
 
Non si tratta qui di venire a capo della questione se Onorio fosse stato realmente eretico: la lettera incriminata poteva in effetti essere intesa anche in modo non eterodosso; non dobbiamo infatti dimenticare che tra i grandi difensori di Onorio viene annoverato il grande flagello del monotelismo, san Massimo il Confessore (580 ca - 662); e anche papa Giovanni IV (+642).  
 
Questa è una questione fattuale, sulla quale anche il Concilio potrebbe essersi sbagliato (e ad avviso di chi scrive, si sbagliò). Il punto che a noi interessa è che tre concili ecumenici (Costantinopoli III e IV e Nicea II) e almeno due papi (Leone II e Adriano II) erano aperti alla possibilità che un Papa potesse essere eretico.  
 
La vicenda di Onorio, come anche il cedimento di papa Liberio (vedi qui) e la presunta capitolazione di papa Vigilio (qui) presentano una questione: come si può continuare ad affermare che la Sede Apostolica mai abbia deviato dalla retta fede, se alcuni papi hanno sottoscritto errori e uno di loro è stato perfino anatematizzato in un concilio ecumenico? Come si può sostenere che il successore di Pietro sia l’infallibile giudice supremo nelle questioni della fede, dal momento che alcuni papi hanno errato?  
 
La distinzione tra la persona del Papa e il suo ufficio era allora già presente. Ma dalla vicenda di Vigilio, Liberio e soprattutto Onorio, emerge che si aveva anche consapevolezza della diversità tra le varie modalità di pronunciamento della Sede Apostolica.  
 
Sarebbe anacronistico attribuire al primo millennio della storia della Chiesa una sistematizzazione dei vari gradi di Magistero e l’assenso dovuto; tuttavia, era già piuttosto chiaro che era possibile che il Papa incorresse in errori dottrinali, senza che ciò minasse il primato della Sede Apostolica; la condanna di Onorio infatti non cambiò la percezione del primato di Pietro, così come era stata espressa da papa Agatone e, un secolo prima, dalla formula di papa Ormisda. Il Concilio di Costantinopoli IV infatti convalidava questa formula, proprio mentre condannava Onorio.  
 
Occorrerà attendere ancora qualche secolo per trovare un primo tentativo di chiarificazione del potere di Pietro e dell’infallibilità papale. Fu il vescovo francese Guido Terreni (1270-1342), carmelitano, filosofo e canonista, conosciuto anche come Guy de Perpignan o Guidonis Terreni, ad affrontare in una quæstio disputata il tema dell’infallibilità pontificia.  
 
Secondo la sua argomentazione, la certezza del Magistero senza errori del Papa riguarda quegli insegnamenti con cui egli intende legare tutta la Chiesa ad una certa dottrina; non concerne invece il Papa come persona privata né quegli insegnamenti che non intendono definire un punto preciso di fede o di morale. La ragione di ciò è piuttosto chiara: lo Spirito Santo non può permettere che la comunità dei fedeli possa essere esplicitamente indotta all’errore mediante un atto definitorio del Papa che insegna come Pastore universale della Chiesa. Perché è proprio qui che risiede la promessa di Cristo a Pietro e ai suoi successori.  
 
È piuttosto evidente che i fedeli possano essere disorientati da eventuali insegnamenti errati del Papa, sia come persona privata, sia quando si esprime in modo non definitorio: il caso di Onorio ne è la dimostrazione. Non è dunque lecito essere accidiosi: il Magistero petrino non è stato dato alla Chiesa perché i suoi pastori e i suoi fedeli, secondo responsabilità evidentemente differenti, fossero semplici soggetti passivi dell’insegnamento del Papa.  
 
I vescovi condividono con il Papa la responsabilità verso tutta la Chiesa, e i fedeli, da parte loro, sono tenuti a comprendere il senso di quanto viene loro insegnato. Quando appare la contraddizione, tale contraddizione dev’essere risolta. Il Papa ha perciò il dovere di mostrare l’armonia del proprio insegnamento con la Rivelazione e la sacra Tradizione, alle quali egli stesso è soggetto. E dunque di dimostrare la continuità del proprio insegnamento con il Magistero che lo precede.  
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San Roberto Bellarmino

Un Papa eretico? Cosa ne pensava san Roberto Bellarmino

 
La condanna post mortem di papa Onorio è un fatto storico. Non è affatto certo che tale condanna fosse ben meritata, ma è invece pacifico che essa si trovi nero su bianco negli atti di tre concili, approvati dai romani pontefici. La questione merita una “digressione”.  
 
Quella del “papa eretico” è certamente una possibilità remota, ma non per questo irreale o impossibile. Ed è una vexata quæstio, che da ipotesi teologica è divenuta, nell’ultima metà di secolo, motivo di numerosi scismi. Il punto critico e forse insuperabile del problema sta nel principio inviolabile per cui prima sedes a nemine iudicetur ‒ la prima Sede, ossia la Sede Apostolica, non può essere giudicata da nessuno. Dunque, se non può essere giudicata, chi può deporre il papa eretico?  
 
Cercando di semplificare, senza tradire il pensiero soggiacente alle differenti correnti contemporanee sedevacantiste (qui e qui per un quadro d’insieme), la loro tesi di fondo è che un papa manifestamente eretico si separa da sé dalla Chiesa, decadendo così dall’ufficio petrino.  
 
Non si tratterebbe dunque di giudicare il papa, ma semplicemente di discernere che il papa non è più tale, a causa della sua eresia. Né si tratterebbe di deporlo, ma di prendere atto che si è deposto da sé con la propria eresia o, se si preferisce, che è stato deposto dalla legge divina.  
 
Questa posizione assomiglia molto alla seconda delle cinque tesi discusse da san Roberto Bellarmino, nel suo De Romano Pontifice, secondo la quale il papa eretico è deposto ipso facto da Dio e quindi separato dalla Chiesa, della quale dunque non è più papa.  
 
La Chiesa dunque non giudicherebbe propriamente il papa, perché “il papa” caduto in eresia non è più papa e può pertanto essere giudicato. Il punto è che Bellarmino riferisce sì questa tesi, ma per respingerla.  
 
Richiamiamo due punti che abbiamo fatto notare nel precedente articolo. Papa Adriano II (792-872), durante il Concilio di Costantinopoli IV (869-870), aveva dato una spiegazione sulla liceità della condanna di papa Onorio (585-638).  
 
Il Papa precisava che «né i patriarchi né gli altri vescovi [avevano] diritto di emettere alcun giudizio su di lui a meno che l'autorità della stessa prima sede pontificia non ne avesse dato il consenso»: è in sostanza il principio che la prima Sede non può essere giudicata da nessuno.  
 
Ma nel caso di Onorio si trattava comunque di un papa defunto, e dunque un legittimo successore aveva tutta l’autorità per pronunciare su di lui un giudizio e una condanna. Non risulta invece un caso, nella storia della Chiesa, in cui un papa in carica sia stato deposto per eresia.  
 
Ma Adriano aveva affermato anche un’altra cosa: che l’accusa di eresia è l’«unica ragione per cui anche gli inferiori possono legittimamente giudicare i propri superiori». Come conciliare questa posizione con il principio che la Sede Apostolica non può essere giudicata da nessuno?  
 
Un notevole contributo alla questione è stato offerto da un dettagliato studio di Robert Siscoe e John Salza, The True Meaning of Bellarmine’s Ipso Facto Loss of Office Theory for a Heretical Pope. Come si evince dal titolo, si tratta di una disamina per comprendere il reale pensiero del Bellarmino sul papa eretico e sulla sua perdita dell’ufficio petrino ipso facto, ossia per lo stesso fatto dell’eresia, che può aiutare a chiarire alcuni aspetti controversi.  
 
Partiamo da una constatazione: coloro che ritengono che la Sede Apostolica sia vacante, sostengono che l’eresia del papa (o dei papi) sia notoria; e dunque non vi sia alcun dubbio sul fatto che il papa sia deposto ipso facto. Il minimo che si possa osservare è che tra costoro non vi è affatto consenso su quali papi debbano essere considerati legittimi e quali no: alcuni ritengono che la Sede sia vacante dalla morte di papa Benedetto XVI, altri da Paolo VI, altri ancora da Giovanni XXIII, e non mancano quelli che spostano ancora più indietro l’inizio della Sede vacante.  
 
Evidentemente l’eresia manifesta non è così manifesta. Se poi pensiamo che la stragrande maggioranza dei cattolici, inclusi vescovi e cardinali, hanno riconosciuto tutti questi papi, il problema diventa ancora più marcato.  
 
Il punto è che san Roberto Bellarmino, seguito da molti altri teologi di fama, come Francisco Suárez e Giovanni di San Tommaso, afferma chiaramente la necessità di un previo giudizio della Chiesa, tramite un concilio o una riunione dei cardinali, che dimostri inequivocabilmente l’eresia.  
 
Si tratta di un cedimento verso la posizione conciliarista (che ritiene il concilio superiore al papa)? O di una contraddizione al principio che la prima Sede non può essere giudicata?  
 
Non esattamente. In un’altra opera, il De Concilio, Bellarmino distingue tra due giudizi: un giudizio discrezionale, che discerne la situazione, e un giudizio coercitivo, che impone l’obbedienza ad un comando. Nel caso di eresia o di dubbio su chi sia il papa legittimo, quando si ha la copresenza di più “papi”, o ancora quando un papa è accusato di crimini gravi, i vescovi e i cardinali possono riunirsi per dirimere la questione.  
 
Un tale eventuale concilio, non avendo l’autorizzazione del papa, sarebbe pertanto un concilio imperfetto, ossia impossibilitato a pronunciarsi su qualsiasi altro argomento dottrinale o disciplinare. Questo pronunciamento, precisa Bellarmino, non ha però potere coercitivo. Che cosa accade, dunque?  
 
Il cardinale gesuita ha ben chiaro che solo Dio ha il potere di deporre un papa; ma suggerisce un illuminante parallelo tra la modalità di elezione del pontefice e la sua deposizione. Sono i cardinali ad eleggere il papa, ma è solo Dio a costituirlo tale nel momento della sua accettazione; vi è dunque una cooperazione tra Dio e gli uomini: prima i cardinali eleggono, poi, all’atto dell’accettazione, Dio trasmette al nuovo papa i suoi poteri, al punto che mai si ha un papa se non c’è la mediazione umana.  
 
Sul versante della deposizione, si dovrebbe trovare lo stesso ordine: i cardinali o i vescovi in concilio dichiarano (con giudizio discrezionale, non coercitivo) l’eresia del papa e solo allora, e mai senza questa mediazione, Dio lo depone.  
Qualunque sia la difendibilità di questa posizione, che non risolve tutti i problemi, è però chiaro che la deposizione ipso facto del papa eretico necessita di questo passo intermedio, che mantiene la mediazione, voluta da Dio, della Chiesa, la quale impedisce che ciascuno si eriga a giudice dell’eresia del papa, provocando inevitabilmente dolorosi scismi.  
 
Secondo Bellarmino è chiaro che nessuno può dichiarare eretico un papa senza che prima la Chiesa lo abbia giudicato tale. E questo tipo di giudizio (non coercitivo) permetterebbe, a suo avviso, di non contraddire la non giudicabilità della prima Sede, né di cadere in una forma di conciliarismo mitigato.  
 
Il criterio riguarda in generale qualsiasi presunto eretico o scismatico; san Tommaso spiega infatti che il rifiuto di comunicare con costoro riguarda solo quanti «eretici o scismatici o scomunicati o anche peccatori, (…) vengono privati dell'esercizio dei loro poteri da una sentenza della Chiesa» (Summa Theologiæ III, q. 82, a. 9), non secondo un giudizio personale, fosse anche corretto.  
 
Finché dunque questo giudizio della Chiesa ‒ e non di chiunque ‒ non sia stato pronunciato, il papa rimane in carica e a lui si deve obbedienza, quando comanda ciò che può comandare. Questo è un altro punto chiarissimo in Bellarmino, molto più condiviso che non la sua tesi precedente. Il papa ha una sfera nella quale il suo comando è legittimo, e dunque obbligante.  
 
Ma questa sfera non è infinita né indeterminata. Tant’è vero che egli afferma, in un noto passo, che «come è lecito resistere al Pontefice che aggredisce il corpo, così pure è lecito resistere a quello che aggredisce le anime o perturba l’ordine civile, e, soprattutto, a quello che tenta di distruggere la Chiesa.  
 
Dico che è lecito resistergli non facendo quello che ordina ed impedendo la esecuzione della sua volontà: non è però lecito giudicarlo, punirlo e deporlo, poiché questi atti sono propri di un superiore» (De Romano Pontifice, lib. 2, c. 19).  
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Fonti:  
 
Fonte: Il monotelismo e la grave leggerezza di papa Onorio  
Fonte: Onorio e la questione del Papa eretico  
Fonte: Un Papa eretico? Cosa ne pensava san Roberto Bellarmino  
 
2023-11-19
Autore : Luisella Scrosati Fonte : La Nuova Bussola Quotidiana
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