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La legittimità dei Papi nella storia e nella teologia
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Baldassarre Cossa, ovvero: l’enigma Giovanni XXIII

 
La lunga crisi del Grande Scisma d'Occidente (vedi qui) aveva messo a dura prova l'unità della Chiesa. Non solo durante i quarant'anni dello Scisma ma anche successivamente non fu facile dipanare il groviglio della legittimità dei tre pontefici.  
 
In particolare, quella del cardinale Baldassarre Cossa, che prese il nome di Giovanni XXIII (ca 1370-1419), quando venne eletto al Concilio di Pisa del 1410. Basti pensare che papa Martino V (1369-1431), eletto l'11 novembre 1417 durante il Concilio di Costanza, ossia il papa del (provvisorio) ritorno all'unità, si riteneva successore non di colui che oggi consideriamo il papa legittimo, ossia Gregorio XII (ca 1335-1417), ma appunto di Giovanni XXIII. Dunque un papa legittimo, riteneva di succedere ad un papa in realtà illegittimo...  
 
Ad essere ancora più sorprendente è invece il fatto che Cossa/Giovanni XXIII risultava nella lista dei papi legittimi ancora nell'Annuario Pontificio del 1946! Una prova indiretta della convinzione della sua legittimità la troviamo anche nel famoso romanzo di Robert H. Benson, Il Padrone del Mondo, pubblicato nel 1907; Benson immaginava che tra gli ultimi due papi della storia della Chiesa ci sarebbe stato un “Giovanni XXIV”, proprio perché agli inizi del Novecento, cinque secoli dopo il Grande Scisma, Cossa era ancora considerato papa legittimo. Mentre l'ultimo papa immaginato da Benson prende il nome di Silvestro III, perché Giovanni de' Crescenzi Ottaviani (ca 1000 - ca 1062), che prese proprio il nome di Silvestro III e il cui pontificato durò poco meno di due mesi, è stato considerato antipapa fino a tempi recenti.  
 
Insomma un antipapa considerato papa per secoli e un papa legittimo ritenuto antipapa. Altri casi analoghi si sono verificati nella storia della Chiesa, come, per esempio, quello di Pietro Filargis/Alessandro V (ca 1339-1410), altro “papa” eletto al Concilio di Pisa, così che nei tondi della Basilica di San Paolo fuori le Mura vi sono raffigurati antipapi come fossero sommi pontefici, mentre non compaiono le immagini dei papi legittimi.  
 
Torniamo a Cossa/Giovanni XXIII. Il 27 ottobre 2018, il pronipote di Angelo Roncalli, Marco Roncalli, saggista e biografo del “papa buono”, scrisse un interessante articolo per La Stampa, nel quale rivelava alcuni fatti inediti che portarono il Patriarca di Venezia a scegliere il nome di Giovanni XXIII e non quello di Giovanni XXIV.  
 
Roncalli desiderava assumere il nome di Giovanni, perché era quello del padre e della chiesa nella quale era stato battezzato, oltre che, ovviamente, dell'Apostolo diletto, del Battista e primo nome di Marco, l'evangelista. Ma c'era la questione di Cossa/Giovanni XXIII: se questi veniva considerato papa, allora Roncalli avrebbe dovuto seguire la numerazione successiva; in caso contrario, assumere la stessa del Cossa.  
 
All’“appuntamento” del 28 ottobre 1958, giorno della sua elezione al Soglio di Pietro, il cardinale Roncalli arrivò comunque ben preparato. Nel settembre del 1958, dunque un mese prima della sua elezione, Roncalli era stato chiamato a Lodi da monsignor Tarcisio Benedetti. Roncalli si trovava, insieme ad altri invitati, in una sala del Palazzo episcopale, la “Sala gialla”, dove vi era una grande raffigurazione di Baldassarre Cossa/Giovanni XXIII. Il dipinto ricordava l'evento dell'incontro tra il cardinale napoletano e l'imperatore Sigismondo, uniti nell'intento di porre fine alla divisione e che determinò l'indizione del Concilio di Costanza.  
 
Una frizzante disputa tra due storici si accese sul personaggio rappresentato nel dipinto, alla presenza del Patriarca: uno storico riteneva che Cossa fosse papa legittimo, un altro che invece fosse antipapa. Sembra che Roncalli abbia cercato di conciliare gli animi, affermando che un futuro papa Giovanni avrebbe risolto la questione: se si fosse chiamato Giovanni XXIII, significava che Cossa era stato un antipapa; se XXIV, Cossa doveva essere considerato papa legittimo.  
 
Un'altra testimonianza riportata nell'articolo, di molto precedente a quella appena menzionata, proviene dalla rivista Sursum corda (1974) del Seminario Romano. In un ricordo di Raffaele Boyer, compagno di Roncalli, è emerso che, dopo la morte di Leone XIII (20 luglio 1903), il futuro papa era piuttosto contrariato dal fatto che Baldassarre Cossa fosse considerato papa legittimo nei diversi libri di storia della Chiesa da lui consultati, così come pure sull'Annuario Pontificio. È più che probabile che Roncalli ritenesse vera la “leggenda nera” su Cossa, ma, a parte questo, il Concilio di Costanza lo aveva comunque dichiarato non legittimo, ed egli propendeva perciò per la sua illegittimità.  
 
Il segretario particolare di Giovanni XXIII, mons. Loris Capovilla, ha testimoniato che, durante il conclave, Roncalli gli avrebbe chiesto di procurargli l'Annuario Pontificio. È possibile che egli avesse percezione, da come stavano andando le votazioni e i confronti tra i cardinali, che lo Spirito Santo stesse soffiando su Venezia, come poi di fatto avvenne; e pertanto il Patriarca voleva essere certo di non compiere un errore nella scelta del nome, assicurandosi che l'Annuario portasse il nome di ventidue papa “Giovanni” e non ventitré.  
 
Aneddoti giovannei a parte, la storia mostra come la questione della legittimità di un papa non sia sempre pacifica. Occorre però fare una precisazione molto importante: i dubbi riguardo ad un pontefice sono legittimi nella misura in cui la sua accettazione non è stata pacifica e universale da parte della Chiesa. E in effetti, il conclave che portò all'elezione di Urbano VI avvenne sotto la minaccia del popolo romano, elemento che fin da subito creò dubbi sulla validità di quella elezione, dubbi sostenuti da una parte degli stessi cardinali che a quel conclave parteciparono.  
 
È solo in queste situazioni che vale il principio papa dubius, papa nullus, secondo la breve spiegazione che avevamo dato nello scorso articolo. Quando invece un papa viene accettato pacificamente e universalmente dalla Chiesa, il discorso cambia radicalmente. Ne parleremo in dettaglio nei prossimi articoli.  
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Martino V e la questione del Papa legittimo

 
Martino V (1369-1431) fu il papa finalmente unico, dopo quarant'anni di scisma. Eletto durante il Concilio di Costanza, l'11 novembre 1417, riuscì a governare la Chiesa per un tempo relativamente lungo (13 anni). Oddone Colonna, questo il suo nome di battesimo, aveva erroneamente sostenuto la legittimità di Giovanni XXIII (vedi qui), del quale si considerava successore.  
 
C'è un aspetto di questo pontificato, che merita di essere portato alla luce. Martino dovette porre mano alle agitazioni alimentate da John Wyclif († 1384) e Jan Hus (ca 1371-1415).  
 
Il primo, originario dello Yorkshire, insegnante all'Università di Oxford, si fece alfiere di un movimento antipapale inglese, tanto più che si era nell’epoca dei papi avignonesi, papi cioè provenienti da e residenti nella nemica Francia. Scrisse numerosi testi teologici e raccolse attorno a sé un nutrito gruppo di predicatori popolari, i famosi lollardi.  
 
Il secondo, boemo, subì l'influenza di Wyclif e in sostanza ne abbracciò le posizioni ereticali. Sia i lollardi che gli ussiti ebbero grande diffusione nei paesi di origine dei due “fondatori”.  
 
Più nello specifico, entrambi erravano soprattutto riguardo alla natura della Chiesa e ai diritti e alle prerogative del papa. La loro sottolineatura sull'importanza della pietà personale dei ministri di Dio si spinse fino ad identificare la Chiesa con la comunità di coloro che vivevano ispirati a questa pietà.  
 
Essi sostenevano pertanto che la Chiesa non fosse quella visibile, che appariva corrotta e divisa, ma quella invisibile; e che pertanto, a dover essere riconosciuti come membri della Chiesa, non erano quanti erano annoverati tra il clero, e nemmeno quanti vi appartenevano giuridicamente e formalmente, ma esclusivamente i “veri fedeli”, conosciuti solo da Dio.  
 
Mettevano in discussione la validità delle scomuniche comminate dai pontefici, la loro autorità, l'estensione del potere di legare e sciogliere, così come il fatto che il papa era il successore dell'apostolo Pietro. Per questa insufficiente comprensione della natura della Chiesa, essi ritenevano che fosse sufficiente la sola ordinazione per poter amministrare i sacramenti, inclusa la facoltà di assolvere: non era necessario alcun mandato o giurisdizione e, pertanto, nessuno poteva impedire lo svolgimento del ministero, nemmeno con sanzioni.  
 
Altri errori riguardavano le indulgenze, l'Eucaristia e il Purgatorio, e vennero tutti condannati al Concilio di Costanza.  
 
Quando Oddone divenne papa, sia Wyclif che Hus erano già morti, ma il loro movimento imperversava in Europa. Martino V decise allora di emanare una bolla, la Inter cunctas (22 febbraio 1418), indirizzata ai vescovi e agli inquisitori, con una lista di domande da porre ai sospetti seguaci dei due contestatori, per verificare se credessero rettamente, secondo la fede cattolica.  
 
Tra le quasi 40 domande, troviamo anche la seguente: «se crede che il papa canonicamente eletto, per tutto il tempo in cui è in carica, una volta scelto il proprio nome, è il successore del beato Pietro e possiede la suprema autorità nella chiesa di Dio» (Denz. 1264).  
 
Qualche precisazione alla traduzione italiana. L'espressione pro tempo fuerit sottolinea proprio quel papa che, eletto legittimamente, è in carica – potremmo tradurre: il papa del momento – e che ha espresso il proprio nome (eius nomine proprio expresso). Dunque, il papa la cui legittima elezione è stata riconosciuta, che ha accettato l'incarico, esprimendo questa accettazione con l'autoimposizione del nome.  
 
Perché Martino V aveva inserito questa domanda nella bolla? Perché lollardi e ussiti sostenevano che un papa era legittimo alla condizione che sarebbe stato accettato anche da loro. Martino V invece esigeva che essi riconoscessero come papa colui che era stato legittimamente eletto e riconosciuto come tale dalla Chiesa.  
 
Dunque, il rifiuto di tale papa riconosciuto dalla Chiesa universale costituisce, per Martino V, non solo un problema disciplinare, ma dottrinale.  
 
Avremo modo di vedere più da vicino quella che viene chiamata la dottrina dell'accettazione pacifica e universale del papa. Per ora, soffermiamoci ancora un attimo sul contesto storico. Abbiamo detto che Martino V emergeva da un contesto pluridecennale di incertezza su chi fosse realmente il papa legittimo.  
 
A questo occorre aggiungere che non erano stati pochi i pontefici indegni o comunque assai problematici, sia in un arco temprale prossimo a quello del Grande Scisma come anche quello più remoto (vi abbiamo dedicato numerosi capitoli in questa rubrica domenicale).  
 
Si potrebbe dunque comprensibilmente ritenere che il buon senso avrebbe voluto che, alla luce dei precedenti storici, Martino V lasciasse con indulgenza qualche margine di dubbio in più sulla legittimità di un pontefice; e invece accadde il contrario, tra l'altro proprio da parte di quel pontefice che si considerava successore di quello che in realtà risulterà essere un antipapa.  
 
Secondo aspetto importante che emerge dal contesto storico: l'elezione di Martino V, a differenza di quella dei papi e degli antipapi dei quarant'anni precedenti, era stata riconosciuta da tutta la Chiesa.  
 
Tuttavia, permanevano dei gruppi, come appunto quelli dei lollardi e degli ussiti, che invece continuavano a contestare non solo la dottrina sul papato, ma anche che Martino V fosse effettivamente il papa. Il punto colto dalla Inter cunctas è di estrema importanza: per l'integrità della fede cattolica non è sufficiente, sebbene sia necessario, credere che il vescovo di Roma è il successore dell'apostolo Pietro e ne eredita le prerogative di legare e sciogliere, di essere il fondamento della Chiesa, di possedere l'autorità suprema, eccetera.  
 
Occorre anche riconoscere che quel papa legittimamente eletto, che porta quel preciso nome che lo identifica, è concretamente e attualmente il successore di Pietro. Se questo secondo aspetto non fosse necessario, si potrebbero verificare due situazioni molto gravi: che l'assenso ad una dottrina corretta non abbia però alcuna conseguenza reale (il papa è realmente come lo definisce la Chiesa, ma non è possibile sapere chi sia e se ci sia); che si confessi l'apostolicità della Chiesa, principalmente nella successione ininterrotta della Sede Romana, mentre si afferma però che la Sede è vacante, fino a quando il proprio giudizio personale o di un gruppo, anche vasto, di persone non stabilisca diversamente.  
 
Martino V, di fronte ai wycliffiti e agli ussiti, intendeva blindare la fede cattolica su entrambi i versanti: la dottrina relativa al successore di Pietro si deve tradurre nella concreta accettazione del papa legittimamente eletto, così come il giudizio su chi sia o non sia il papa non può essere determinato da un gruppo di fedeli e/o sacerdoti, ma dall'accettazione universale della Chiesa nella sua totalità morale (non numerica, che non esisteva nemmeno ai tempi di Martino V).  
 
Se così non fosse, si aprirebbero degli scenari per cui la Chiesa universale potrebbe cadere in errore su un aspetto fondamentale per la fede. Ma di questo parleremo la prossima volta.  
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Il Papa legittimo, il contributo di Giovanni di San Tommaso

 
Ripartiamo da Martino V (vedi qui). Nella contesa con i lollardi e gli ussiti, il papa aveva richiesto, come requisito per la confessione integrale della fede cattolica, che essi riconoscessero il papa legittimamente eletto, più precisamente quel papa riconosciuto universalmente e pacificamente dalla Chiesa.  
 
Il grande teologo domenicano, Giovanni di San Tommaso (1589-1644), ha ripreso questo aspetto, sostenendo appunto che sia di fede il riconoscimento che questo preciso uomo “x”, riconosciuto dalla Chiesa come papa, sia effettivamente il papa.  
 
Non si tratta di una tesi teologica, ma effettivamente di una verità strettamente legata alla fede; più tecnicamente rientra in quella categoria che teologicamente viene denominata “fatti dogmatici”. Cerchiamo di capire di cosa si tratta.  
 
Nell'articolazione della nostra adesione di fede alla dottrina insegnata dalla Chiesa, la Professio fidei del 1989 indica tre macro-categorie: l'adesione agli articoli del Credo e agli altri dogmi che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelati; l'adesione a tutto ciò che la Chiesa insegna in modo definitivo; infine l'ossequio dovuto all'insegnamento autentico.  
 
Nella seconda categoria, troviamo tutte quelle verità che, pur non essendo direttamente contenute nella Rivelazione, sono tuttavia connesse con essa. Ora, questo tipo di connessione può essere duplice: logica o storica. Un esempio piuttosto chiaro del primo caso è la condanna dell'eutanasia, che è logicamente connessa al divieto rivelato di non uccidere l'innocente.  
 
Quanto alle verità connesse storicamente alla Rivelazione, esse comprendono proprio i fatti dogmatici di cui abbiamo parlato sopra; la Nota dottrinale (1998) della Congregazione per la Dottrina della Fede ne riporta alcuni esempi: «la legittimità dell'elezione del Sommo Pontefice o della celebrazione di un concilio ecumenico, le canonizzazioni dei santi (fatti dogmatici); la dichiarazione di Leone XIII nella Lettera Apostolica Apostolicæ Curæ sulla invalidità delle ordinazioni anglicane».  
 
La legittimità dell'elezione del papa rientra dunque tra i fatti dogmatici che devono essere tenuti come definitivi, dunque tra quei fatti storici strettamente connessi con la Rivelazione. L'importanza di questi fatti dogmatici mi pare venga ben messa in luce dal classico Compendio di Teologia Dogmatica, del teologo e medievalista bavarese, Ludwig Ott (1906-1985): «Se la Chiesa potesse sbagliare nel suo giudizio su questi fatti o verità, che sono indirettamente connesse con la Rivelazione, ne deriverebbero conseguenze inconciliabili con la sua istituzione divina e con la sua santità».  
 
Prima di comprendere per quale ragione mettere in dubbio la legittimità dell'elezione del sommo pontefice comporterebbe gravi conseguenze, che vanno di fatto a erodere il dogma dell'istituzione divina della Chiesa, della sua indefettibilità e santità, dobbiamo chiarire che si tratta non di qualsiasi elezione del papa, ma di quella del papa universalmente e pacificamente accettato dalla Chiesa.  
 
Giovanni di San Tommaso dà una ragione fondamentale per spiegare perché il mancato riconoscimento di un papa legittimamente eletto non è “solo” un problema disciplinare, ma dottrinale: perché il papa può essere considerato come la regula fidei vivente. Cerchiamo di capire cosa vuol dire questa affermazione.  
 
Il teologo domenicano non sta evidentemente affermando che il papa sia al di sopra della Rivelazione e di quanto la Chiesa ha già definito, e ancor meno che qualunque sua esternazione sia regola della fede. Il punto è un altro: il magistero della Chiesa, che il papa incarna quando intende definire qualcosa, sia agendo ex cathedra che quando intende insegnare in modo definitivo nel suo magistero ordinario, è la regola della fede prossima, che “comunica” la regola della fede remota (la Rivelazione).  
 
Dunque, se la Chiesa intera si ingannasse nel riconoscere dove sta questa regola della fede vivente, la Chiesa si ingannerebbe sulla fede stessa.  
 
Facciamo un esempio. Checché se ne dica, san Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis (1994), ha inteso intervenire in modo definitivo sull'impossibilità dell'ordinazione delle donne; il carattere definitivo di questo pronunciamento era stato ulteriormente ribadito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (vedi qui).  
 
Ora, attenzione: non poche persone, soprattutto negli Stati Uniti, rifiutano di riconoscere i pontefici da Giovanni XXIII (incluso) in poi, per varie ragioni; una di queste è la presunta illegittimità dell'elezione di Roncalli nel conclave del 1958, perché, basandosi su una propria interpretazione di quanto scritto da Benny Lai, nel suo noto libro Il Papa non eletto.  
 
Giuseppe Siri, cardinale di Santa Romana Chiesa: i voti dei cardinali sarebbero confluiti nell'arcivescovo di Genova, il cardinale Siri, il quale avrebbe accettato e scelto per sé il nome di Gregorio XVII; poco dopo però avrebbe rinunciato, perché una parte consistente dei cardinali contrari avevano minacciato uno scisma. Dunque, l'elezione di Roncalli sarebbe stata nulla e tutti i papi seguenti non sarebbero papi legittimi.  
 
Che cosa comporta una teoria del genere? Che tutta la Chiesa avrebbe recepito la definitività dell'insegnamento di Giovanni Paolo II, regola prossima della fede nel suo pronunciamento sul sacerdozio femminile, ingannandosi, perché Wojtyla in realtà (secondo loro) non era papa.  
 
Questo dubbio si potrebbe estendere a tutti i papi dei quali si sospetta la legittimità dell'elezione. Per cui si potrebbe ipoteticamente non essere mai certi di un pronunciamento ex cathedra, come, per es., l'assunzione al Cielo della SS. Vergine, per un dubbio sul fatto che Pio XII fosse veramente papa. E così via.  
 
In sintesi, dichiarare come fatto dogmatico che il papa accettato dalla Chiesa sia veramente papa blinda ogni possibile messa in causa dell'insegnamento del papa, in quanto regola prossima della fede, ossia impedisce che si possano mettere in dubbio i suoi pronunciamenti infallibili o definitivi sulla base di un presunto dubbio sulla legittimità della sua elezione.  
 
Dunque, poiché non è possibile che la Chiesa universale si inganni, credendo quanto insegnato infallibilmente o definitivamente dal sommo pontefice, così non è possibile che la Chiesa universali erri ritenendo papa uno che non lo è.  
 
Per evitare fraintendimenti, è necessario precisare che questo fatto dogmatico appena descritto riguarda il fatto che il papa universalmente riconosciuto sia il vero papa e non che sia un buon papa, un papa santo o un papa che non pronuncia errori teologici o perfino eresie.  
 
Questi ultimi aspetti non c'entrano nulla con quanto espresso della Professio fidei e spiegato da Giovanni di San Tommaso. Il quale invece aggiunge un corollario importante, ossia che l'universale e pacifica accettazione del papa da parte della Chiesa risolve anche ogni dubbio sulla legittimità della sua elezione: se Tizio è stato accettato come papa allora tutti i requisiti per la validità della sua elezione si sono verificati, e ogni dubbio che possa essere sollevato in un secondo momento decade. Diversamente, basterebbe sollevare dei dubbi per non avere più la certezza della validità dell'elezione del pontefice.  
 
Proseguiremo il discorso nei prossimi articoli, ma è bene ancora una volta ribadire che stiamo parlando del papa universalmente accettato dalla Chiesa, non di un papa la cui elezione è stata contestata da una parte della gerarchia.  
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Il Papa legittimo e l’accettazione universale della Chiesa

 
L'accettazione da parte della Chiesa del papa scelto dai cardinali non è un mero pro forma, ma l'atto fondamentale con cui la Chiesa universale riconosce il proprio capo, Vicario di Cristo, e vi si sottomette. Perché la sottomissione al papa legittimo, quando egli comanda all'interno dei limiti della propria potestà suprema, è indispensabile per appartenere alla Chiesa.  
 
Riprendendo le considerazioni di Giovanni di San Tommaso (vedi qui), il cardinale Charles Journet (1891-1975), indiscusso teologo e autore della “summa” di ecclesiologia L'Église du Verbe Incarné, ricordava che l'accettazione pacifica universale «è un atto con cui la Chiesa impegna il suo destino.  
 
È quindi un atto di per sé infallibile e immediatamente conoscibile come tale»; la conseguenza di questa infallibilità è che questa accettazione manifesta e perciò riconoscibile assicura che «tutti i requisiti per la validità dell'elezione sono stati soddisfatti» (op. cit., I, 1955, p. 624). L'accettazione, secondo Journet, si verifica in due modi: negativamente, se l'elezione non viene contestata; positivamente, quando «l'elezione viene dapprima accettata da coloro che sono presenti e in seguito dagli altri».  
 
Il punto centrale, nell'esposizione di Journet, è che la Chiesa ha il diritto di eleggersi un papa, perché Cristo stesso ha fondato la Chiesa su Pietro e sui suoi successori, che sono principio di unità, regola della fede, sede della giurisdizione suprema.  
 
Da questo diritto discendono due diritti conseguenti fondamentali: il primo è che la Chiesa ha il diritto di sapere con certezza chi sia concretamente il papa; è per questa ragione che il papa, la cui elezione non è contestata, una volta che egli acconsente e la sua elezione viene resa manifesta, è veramente papa. Il secondo è il diritto della Chiesa a giudicare il papa dubbio, come di fatto è accaduto nella storia.  
 
Di particolare interesse è la seguente affermazione del cardinal Journet: «Fin tanto che persiste il dubbio sull'elezione e che il consenso tacito della Chiesa universale non ha rimediato ai possibili vizi dell'elezione, non c'è il papa, papa dubius, papa nullus». Journet riporta la convinzione comune che la pacifica universalis ecclesiæ adhæsio è in grado di rimediare a qualunque vizio di elezione possa essersi verificato, precisamente per il fatto che la Chiesa universale non può errare nel sottomettersi ad un papa che in realtà non sarebbe tale.  
 
Quest'ultima affermazione è fondata su un duplice aspetto dell'infallibilità della Chiesa: in una prima prospettiva, non è altro che l'estensione della fondamentale infallibilità della Chiesa in credendo: così come la Chiesa universale non può errare credendo una verità di fede, analogamente non può errare nel credere un fatto dogmatico, come la legittimità del papa riconosciuto universalmente.  
 
Su un secondo versante, possiamo dire che l'infallibilità dell'adesione pacifica e universale è legata all'infallibilità del Magistero ordinario disperso nel mondo; nel nostro caso, ciò significa che la Chiesa gerarchica dispersa nel mondo, ossia l'intero episcopato, non può sbagliarsi nell'insegnare che “Tizio è il papa” e nell’aderire a Tizio come al papa.  
 
Il cardinale gesuita Louis Billot (1846-1931), anch'egli autore di una monumentale produzione teologica, riteneva «come elemento incrollabile e al di là di ogni dubbio» che l'adesione della Chiesa universale a tale papa «è sempre di per sé il segno infallibile della legittimità della persona del Pontefice, e quindi dell'esistenza di tutte le condizioni richieste per questa legittimità» (De Ecclesia Christi, II, 1909, p. 620).  
 
Di nuovo, la pacifica e universale adesione gode di un’infallibilità tale da chiudere ogni questione su eventuali dubbi circa le condizioni che renderebbero illegittima l'elezione del pontefice. Attenzione all'argomentazione: non è perché si siano previamente risolti tutti i dubbi circa le condizioni di un’elezione legittima che si considera l'accettazione universale come segno infallibile che tale papa sia papa, ma il contrario.  
 
È l'accettazione universale che assicura la legittimità del pontefice e dunque tronca alla radice ogni altro eventuale dubbio in merito ai requisiti della persona, alla legalità delle votazioni, alla legittimità del Conclave, etc.  
 
Billot incalza, spiegando che questo fatto dogmatico discende dalla promessa di Cristo che le porte degli inferi non avrebbero prevalso (cf. Mt 16, 18): se infatti la Chiesa aderisse a un falso pontefice, aderirebbe «a una falsa regola di fede, poiché il Papa è la regola vivente che la Chiesa deve seguire nel credere, e di fatto segue sempre.  
 
Dio può talvolta permettere che una sede apostolica vacante si protragga a lungo. Può anche permettere che sorgano dubbi sulla legittimità di questa o quella elezione. Non può però permettere che tutta la Chiesa accetti come pontefice qualcuno che non lo è veramente e legittimamente».  
 
Se così fosse, le porte degli inferi avrebbero prevalso, portando tutta la Chiesa a seguire una regola della fede fasulla, il corpo ad unirsi ad una testa non sua, il popolo di Dio e la gerarchia ad obbedire ad un'autorità suprema e universale fittizia. Questa argomentazione è la chiave di volta della questione: la Chiesa universale non può errare nel riconoscere il papa legittimo; dunque, qualunque sia la ragione che fonderebbe il dubbio sulla legittimità del pontefice, essa decade di fronte all'accettazione pacifica e universale della Chiesa.  
 
Ricordiamo ancora una volta che, quando si parla del papa come regola della fede vivente, lo si intende nell'esercizio della sua prerogativa di insegnare infallibilmente o in modo definitivo quanto appartiene alla fede e alla morale.  
 
Pertanto è pacifico che il papa possa errare quando si pronuncia su altro e/o allorché non stia definendo qualcosa, anche qualora utilizzasse strumenti ufficiali, come encicliche, esortazioni apostoliche, etc. Ed è ancora più pacifico che il papa possa essere... un pessimo papa.  
 
Il punto è che Dio ha posto al male un limite invalicabile, tale per cui non è mai possibile, nemmeno nel tempo in cui i falsi profeti inganneranno molti (cf. Mt 24, 11), che la Chiesa venga ingannata nella sua universalità su un punto così sostanziale come il riconoscimento del papa legittimo.  
 
Per questo, conclude Billot, «la suddetta adesione della Chiesa cura alla radice ogni difetto dell'elezione e prova infallibilmente l'esistenza di tutte le condizioni richieste», per cui «non è più lecito dubitare dell'esistenza di alcun difetto nell'elezione o dell'assenza di alcuna condizione necessaria per la legittimità».  
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Il Papa legittimo, una risposta alle obiezioni

 
Dedichiamo un'ultima riflessione alla questione relativa alla legittimità del papa riconosciuto universalmente e pacificamente dalla Chiesa come fatto dogmatico (vedi gli articoli precedenti), affrontando le due principali obiezioni che normalmente vengono sollevate.  
 
Prima di tutto ricordiamo che i fatti dogmatici – tra i quali rientra la legittimità del pontefice riconosciuto universalmente – fanno parte delle verità connesse alla Rivelazione (per necessità storica); il che, in concreto, significa che la loro negazione finirebbe per contraddire uno o più punti della medesima Rivelazione.  
 
I fatti dogmatici devono pertanto essere tenuti in modo definitivo, non ipotetico (potrebbe essere così) o condizionale (sarebbe così, ma solo a condizione che). Il papa, una volta che ha ricevuto l'accettazione della Chiesa universale, è papa, qualunque contestazione si possa avere a riguardo.  
 
Una prima obiezione frequentemente sollevata contesta il senso dell’“accettazione universale”, ritenendo che il dissenso di un gruppo, più o meno esteso, di fedeli e chierici, sia sufficiente per affermare la non universalità di tale accettazione.  
 
In sostanza, l'universalità dovrebbe essere intesa come una totalità matematica da parte dei battezzati. Occorre rilevare che, se così fosse, non si raggiungerebbe quasi mai la certezza della legittimità del papa, perché sarebbe sufficiente qualsiasi dissenso di un gruppo, dovuto a ragioni più o meno plausibili, per lasciare nell'incertezza la Chiesa universale.  
 
Questa incertezza si riverserebbe sugli atti del sommo pontefice, così che sarebbe sempre possibile rifiutare una definizione dogmatica o un insegnamento definitivo a motivo del fatto che la legittimità di tale papa era stata contestata da quel gruppo di fedeli e/o chierici.  
 
Ma c'è una ragione più profonda che fa comprendere che il dissenso di fedeli e chierici non sia sufficiente ad inficiare l'universalità richiesta: quando si parla di “Chiesa universale” si intende non la semplice comunità dei battezzati – concezione protestante dell'Ecclesia –, ma la comunità dei battezzati uniti ai loro legittimi pastori, i vescovi.  
 
Se dunque i vescovi, nella loro universalità, riconoscono Tizio come vero papa, i fedeli sono tenuti ad aderire a questo insegnamento.  
 
L'ipotesi che tutti i vescovi si ingannino sulla legittimità del pontefice comporterebbe infatti una defezione di tutta la Chiesa docente su un fatto dogmatico e sul riconoscimento di chi è il Capo visibile della Chiesa, il che sarebbe una contraddizione diretta dell'infallibilità della Chiesa.  
 
Ma anche della sua indefettibilità, perché la Chiesa non può rimanere senza Capo, se non per quel tempo di sede vacante necessario per eleggere un nuovo pontefice. Verrebbe altresì meno la nota dell'unità della Chiesa, che è una delle quattro note professate nel Credo, perché ci troveremmo nella situazione in cui la Chiesa, vescovi e fedeli loro sottomessi, sarebbe separata dal suo Capo.  
 
Va da sé che, quando parliamo dell'insieme dei vescovi, intendiamo quanti hanno ricevuto una giurisdizione dal sommo pontefice e sono dunque in comunione con la Chiesa: non è sufficiente infatti l'ordinazione episcopale per fare di un sacerdote un vescovo.  
 
La seconda obiezione riguarderebbe la condizionalità dell'accettazione pacifica universale, posizione che potremmo riassumere in questo modo: la dottrina sull'accettazione è valida, ma solo a condizione che...; oppure: è valida, ma non si applica a questo caso di pontefice universalmente accettato.  
 
Dunque vi sarebbero condizioni “aggiuntive” perché si possa ritenere questa dottrina nel caso concreto del papa Tizio. Per esempio, che siano state osservate tutte le norme dell'elezione del papa (dal 22 febbraio 1996 indicate nella Universi Dominici Gregis); o a condizione che il papa scelto dai cardinali non fosse eretico prima della sua elezione; o ancora, a condizione che il papa eletto non fosse iscritto alla Massoneria o ad altre associazioni proibite dalla Chiesa, per le quali si incorrerebbe nella scomunica; a condizione che la rinuncia di un eventuale papa dimissionario sia valida.  
 
Si potrebbero aggiungere ulteriori argomenti condizionali, ma non serve a molto, perché le pur diverse condizionalità hanno in comune questa logica: occorre verificare che certe condizioni si siano verificate per poter ritenere applicabile al presunto papa in questione la dottrina sull'accettazione pacifica universale.  
 
Detto in altro modo: l'insegnamento sulla legittimità del papa non si applicherebbe a questo singolo caso, perché, in questo caso, non si sono verificate certe condizioni.  
 
Ora, il punto è che l'unico caso in cui non si applica la dottrina sull'accettazione pacifica universale è che... non vi è stata un'accettazione pacifica universale! Ossia quando vi sono stati dei vescovi che hanno contestato quella specifica elezione, per delle precise ragioni legate alle condizioni previe del soggetto eletto o alle modalità dell'elezione: eresia, scisma, scomunica, incapacità mentale del candidato, simonia, brogli, costrizione nell'elezione, e così via.  
 
Quando invece i vescovi (secondo Giovanni di San Tommaso, basterebbero i cardinali elettori) hanno universalmente riconosciuto Tizio come papa, allora, in virtù del fatto dogmatico, si ha la certezza che Tizio sia papa, a prescindere dal fatto che possa rivelarsi un pessimo papa e, soprattutto, a prescindere che si siano risolti eventuali dubbi sulla sua persona, sull'elezione e quant'altro.  
 
Perché il punto chiave dell'accettazione pacifica universale è proprio questo: poiché è impossibile che la Chiesa erri nell'unirsi a un Capo fasullo (per le ragioni dette sopra), dunque il papa riconosciuto universalmente è il Capo della Chiesa.  
 
La maggioranza dei teologi che trattano della questione ritiene che questa accettazione sia la prova che tutte le condizioni di validità, su cui si potrebbero sollevare dubbi, si sono di fatto verificate; altri si spingono ad affermare una sorta di eventuale sanatio in radice di eventuali deficienze; ma a noi interessa che tutti concordino con il fatto che l'accettazione universale è la garanzia che Tizio è papa.  
 
Guardando nuovamente la questione da un altro punto di vista, possiamo dire che chi ritiene che, in questo caso specifico, il pontefice riconosciuto universalmente non è in realtà papa, per qualsivoglia ragione, non ha compreso il senso del fatto dogmatico.  
 
Sarebbe come colui che, di fronte ad un pronunciamento ex cathedra, mettesse in dubbio il dogma proclamato perché, a torto o a ragione, le argomentazioni addotte risulterebbero insufficienti o errate, oppure non limpido l'iter per giungere a tale pronunciamento.  
 
L'adesione di fede, in questo caso, viene data in ragione dell'infallibilità petrina, mentre, nel caso dell'accettazione universale, in ragione dell'infallibilità della Chiesa.  
 
Dunque aveva ragione Martino V: l'accettazione di questo concreto papa, riconosciuto universalmente dalla Chiesa, non è solo una questione disciplinare, ma di fede.  
 
La Chiesa universale non può errare nell'unirsi al suo Capo visibile (unità della Chiesa), né la Chiesa può rimanere priva di lui (indefettibilità), né la Chiesa gerarchica può errare nell'insegnare che Tizio sia papa (infallibilità): l'adesione universale dei vescovi è un segno infallibile della legittimità del sommo pontefice.  
 
 
OK
Fonti :  
Baldassarre Cossa, ovvero: l’enigma Giovanni XXIII  
Martino V e la questione del Papa legittimo  
Il Papa legittimo, il contributo di Giovanni di San Tommaso  
Il Papa legittimo e l’accettazione universale della Chiesa  
Il Papa legittimo, una risposta alle obiezioni  
 
 
 
2024-03-17
Autore : Luisella Scrosati Fonte : La Nuova Bussola Quotidiana
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