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La rivolta di Lutero [4/4]
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Ringraziando Luisella Scrosati per l'ottimo lavoro catechetico e apologetico che svolge, proponiamo le sue lezioni sul tema della rivolta di Lutero contro la Chiesa Cattolica.  
 
Lo facciamo raggruppando i suoi articoli in quattro parti.  
La rivolta di Lutero [1/4]  
La rivolta di Lutero [2/4]  
La rivolta di Lutero [3/4]  
 
Questa è la quarta parte.  
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Lutero e gli effetti del rifiuto dell’autorità della Chiesa

 
La Theologia crucis, cui abbiamo dedicato due articoli, costituisce la struttura fondamentale del pensiero teologico di Lutero, con quel suo caratteristico aut-aut che nemmeno troppo velatamente mostra la genesi controversistica del suo pensiero.  
 
L’aspetto centrale di questa contesa tra Lutero (e ovviamente gli altri “riformatori”) e la Chiesa cattolica si gioca in ultima analisi sul tema dell’autorità della Chiesa. La rilettura della famosa dichiarazione di Lutero davanti alla Dieta di Worms (18 aprile 1521) può aiutare a comprendere la questione:  
 
«A meno che non venga convinto dalla testimonianza delle Scritture o da ragioni evidenti — poiché non confido né nel Papa, né nel solo Concilio, dal momento che è certo che essi hanno spesso errato e contraddetto loro stessi — sono tenuto saldo dalle Scritture da me addotte, e la mia coscienza è prigioniera della parola di Dio, ed io non posso né voglio revocare alcunché, vedendo che non è sicuro o giusto agire contro la coscienza. Dio mi aiuti. Amen».  
 
Il “gran rifiuto” di Lutero racchiude in nuce quella che sarà da lì in poi l’anima del protestantesimo: la Bibbia è l’unica autorità in grado di vincolare la coscienza del credente, dal momento che il suo contenuto è sufficientemente evidente a chiunque la accosti.  
 
Scriptura sui ipsius interpres: la Scrittura è essa stessa l’interprete. Corollario di questa impostazione è che la Chiesa non ha alcun ruolo vincolante da giocare nell’interpretazione delle Sacre Scritture; al massimo, la testimonianza della tradizione può essere di aiuto, come i consigli di un vecchio saggio, ma nulla più. La Scrittura come unica regola della fede, ad esclusione della Chiesa, fa inevitabilmente il paio con la sovranità della coscienza, che si ritrova così “sola” al cospetto della Bibbia. La Chiesa diviene invece origine di tradizioni che gli uomini pretendono di aggiungere alla Parola di Dio, tradendola.  
 
L’errore di Lutero non fu chiaramente quello di rifiutare una presunta superiorità della Chiesa sulle Sacre Scritture; la costituzione dogmatica Dei Verbum (n. 10), raccogliendo l’insegnamento bimillenario della Chiesa, spiega infatti che il magistero «non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio».  
 
Il punto è un altro, anzi due: primo, la Bibbia diventa improvvisamente sinonimo della Parola di Dio, coestensiva dunque alla Rivelazione; secondo, le Sacre Scritture divengono un libro consegnato nelle mani del fedele, perché ne colga il contenuto salvifico ritenuto di per sé chiaro.  
 
Quanto all’evidenza del senso delle Scritture, Lutero dovrà ben presto rendersi conto che su punti assolutamente fondamentali per la fede, come il battesimo, l’Eucaristia, il matrimonio, e persino la Trinità, il criterio del sola Scriptura sarà foriero di tutt’altro che unità e consenso. La pretesa evidenza delle Scritture rimane sì principio condiviso, con diverse sfumature, dalle differenti denominazioni protestanti, ma per dare origine a profonde e sempre più numerose divisioni. La storia del protestantesimo, con le sue migliaia di denominazioni, è la prova sperimentale che il senso delle Scritture è tutt’altro che auto-evidente.  
 
Ma c’è altro su cui si deve riflettere: Lutero ha separato, per la prima volta formalmente, quanto è sempre stato unito: Scritture, Tradizione e Magistero vivente della Chiesa.  
 
La questione è molto articolata, ma nella sostanza è in realtà molto semplice. Per comprendere questo punto, niente di meglio che rivolgersi al reale, ossia a come i discepoli del Signore e i Padri abbiano trasmesso di fatto la fede.  
 
Prendiamo, per esempio, l’episodio narrato negli Atti degli Apostoli: l’eunuco etiope aveva tra le mani un rotolo del profeta Isaia; «Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: “Capisci quello che stai leggendo?”. Quegli rispose: “E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?”. E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui» (At 8, 30-31).  
 
Un breve testo che ci dice molte cose: che la Scrittura non è affatto così chiara e che la via maestra per comprenderla è quella di rivolgersi a qualcuno che istruisca. Filippo non risponde agli interrogativi dell’eunuco dandogli un altro libro, ma annunciandogli «la buona novella di Gesù» (At 8, 35), così come egli l’aveva a sua volta ricevuta.  
 
Quando guardiamo ai primi secoli della storia della Chiesa, ci rendiamo conto che le cose non andarono diversamente: non ci fu eresia che non si fondò sulla pretesa che gli insegnamenti della Chiesa non erano presenti nelle Scritture, con il dito puntato sulla Chiesa rea di distorcere il senso limpido delle Scritture con interpolazioni umane. Ma il consenso dei Padri porta ad una chiara affermazione dell’importanza delle Scritture, ma non di una loro sufficienza; principio che nasce da un’evidenza: il Signore Gesù invia gli apostoli ad annunciare e battezzare, non a scrivere libri.  
 
La preziosa presenza dei testi sacri nasce da questo movimento di trasmissione della fede e della grazia, di cui è pertanto parte co-essenziale, al pari di quanto gli apostoli hanno insegnato con la loro viva voce e istituito nelle chiese da loro fondate. È questa duplice modalità di trasmissione che la Chiesa vivente nei secoli accoglie, custodisce, scruta e consegna agli uomini di ogni tempo, guidata da quello stesso Spirito che ha soffiato sugli scrittori sacri e ha illuminato la predicazione apostolica.  
 
Scagliare l’autorità delle Scritture contro l’autorità della Chiesa è dunque un artificioso e pernicioso non-senso, che spezza quella profonda unità tra Scritture, Tradizione e insegnamento autentico della Chiesa, uscita dalle mani del Signore Gesù.  
 
La frammentazione del mondo protestante non è dunque l’esito accidentale e imprevedibile del principio del sola Scriptura, ma la conseguenza ovvia dell’aver prodotto una separazione all’interno della Rivelazione, affermando la Scrittura al prezzo della liquidazione della Tradizione e del Magistero vivente della Chiesa.  
 
In verità le Scritture nascono nel cuore della Tradizione e da essa sono garantite; Tradizione che prosegue nell’ininterrotta successione apostolica, che costituisce il Magistero vivente della Chiesa.  
 
La Tradizione ci dà la Scrittura e la Scrittura rimanda alla Tradizione; entrambe fondano il Magistero e lo richiedono come loro garante, costituendolo così quale regola prossima della fede. Ogni qual volta si tenta di porre una cesura in questa unità originaria, per la Chiesa sono dolori.  
 
Fonte "Lutero e gli effetti del rifiuto dell’autorità della Chiesa"  
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Il rapporto tra Scrittura e Tradizione

 
Conviene soffermarsi ancora una volta sulla frammentazione introdotta da Lutero nell’unità armonica tra Scrittura, Tradizione e Magistero della Chiesa.  
 
Negli articoli dedicati alla rottura con i Greci, che darà origine allo scisma ortodosso, si era potuto comprendere come l’affermazione delle Sacre Scritture e della Sacra Tradizione era stata svincolata dall’interpretazione autentica e autoritativa del Magistero della Chiesa, perlomeno di quel Magistero che non si esprime in seno ad un concilio ecumenico.  
 
Con Lutero si è invece verificata l’espulsione anche della Tradizione, ritenuta al massimo un aiuto interpretativo autorevole, ma non riferimento ultimo e definitivo.  
 
Più di recente, all’interno del mondo cattolico, in quello che possiamo denominare “cattolicesimo liberale”, abbiamo assistito ad una posizione nuova, ma pur sempre erronea, la quale, pur senza negare formalmente il Magistero della Chiesa, ne ha ridotto la forza vincolante solamente a quelle proposizioni insegnate ex cathedra dal pontefice e alle definizioni dogmatiche dei concili ecumenici, consegnando invece il Magistero ordinario al dissenso e alla critica.  
 
Occorre però fare attenzione anche a quelle correnti che distaccano il Magistero dalla Scrittura e dalla Tradizione secondo una prospettiva opposta, ossia ritenendo, più o meno esplicitamente, che il Magistero possa prescindere da esse o manipolarle per dare loro un significato arbitrario.  
 
O ancora a quelle posizioni di tipo autoritario, che non pongono riguardo al tipo di pronunciamento del Magistero, esigendo a prescindere assenso assoluto e obbedienza.  
 
Non entriamo, in questo breve articolo, nella questione dei gradi di pronunciamento del Magistero e quindi del corrispondente assenso del fedele, materia che è oggetto del “Primo piano” del nuovo numero de La Bussola Mensile (n. 17, marzo 2025).  
 
Ad interessarci è invece la verità dello stretto legame tra Scrittura e Tradizione da una parte, e tra queste e il Magistero della Chiesa dall’altra. In questo articolo ci occuperemo del rapporto Scrittura-Tradizione, affidando il senso del Magistero ad un articolo successivo.  
 
Talora si pensa che sia stata la Chiesa cattolica ad aver aggiunto, all’epoca del Concilio di Trento, la Tradizione a fianco della Bibbia, per poter avere il monopolio dell’interpretazione di quest’ultima e sottrarla all’ispirazione che lo Spirito dona a ciascun lettore devoto.  
 
In realtà, sono la Bibbia stessa e la storia della Chiesa nei suoi primi decenni di vita a mostrare i punti fermi della teologia fondamentale cattolica sul tema, da cui scaturisce una visione del rapporto tra Tradizione e Scrittura non come escludente o sottostimante una delle due e nemmeno come due fiumi paralleli indipendenti, ma piuttosto come due cerchi intrecciati tra loro, ciascuno con caratteristiche proprie; cerchi che irradiano l’unica Rivelazione divina.  
 
Prima verità: la Tradizione precede cronologicamente le Scritture e queste ultime provengono dalla Tradizione stessa e da essa sono comprovate. Prima che i libri che compongono la Bibbia fossero completati, la Rivelazione di Dio era già stata trasmessa mediante la parola e le azioni degli Apostoli.  
 
Sono proprio le stesse Scritture ad attestare questa priorità temporale e fondativa della Tradizione: «Le cose che hai udito da me davanti a molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare ad altri» (2Tm 2, 2); «Vi lodo poi perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse» (1Cor 11, 2).  
 
È evidente che questi testi di San Paolo non fanno riferimento a degli scritti (o non solamente ad essi), che poi confluiranno nel canone delle Scritture, ma ad insegnamenti che l’Apostolo ha trasmesso con la sua viva voce, con il suo esempio, con le sue decisioni.  
 
Lo stesso San Paolo annuncia il principio fondamentale che «la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10, 17). Emerge così la presenza di una traditio, che comprende sia l’atto del trasmettere come i contenuti da trasmettere, mediante la viva presenza degli Apostoli, all’interno della quale si formano anche gli scritti ispirati, come si evince da questo chiaro testo: «Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete apprese così dalla nostra parola come dalla nostra lettera» (2Ts 2, 15).  
 
Non solo «parola e lettera» sono due modalità di trasmissione dell’unica Parola di Dio, ma è anche evidente che la «lettera» nasce all’interno di questa trasmissione e si diffonde insieme ad essa.  
 
Il minimo che se ne ricava è che questa Tradizione risulta essere il contesto interpretativo naturale, e perciò vincolante, della lettera. Al punto che è precisamente questa Tradizione che sa riconoscere i libri divinamente ispirati e definire, più tardi, il canone delle Scritture; così come è questa Tradizione che riconosce e rigurgita tradizioni umane che rivendicano una comprensione più profonda dei testi sacri, ma che in realtà li distorcono.  
 
Come nel caso eclatante della gnosi, che Sant’Ireneo affrontava facendo ricorso proprio all’istanza autoritativa della Tradizione: «Se ci fosse una qualche controversia su una questione importante, non si dovrebbe ricorrere alle chiese più antiche, nelle quali vissero gli apostoli, e prendere la dottrina esatta sulla questione presente? Anche se gli apostoli non ci avessero lasciato le Scritture, non si dovrebbe seguire l’ordine della Tradizione, che hanno trasmesso a coloro cui affidavano le Chiese?» (Contro le eresie, 3, 4. 1).  
 
La Tradizione ha anche un contenuto proprio, che non è direttamente rintracciabile nelle Scritture. Di fronte a quanti rifiutavano la formula dossologica che, anziché terminare con “nello Spirito Santo”, concludeva con l’espressione “con lo Spirito Santo”, in quanto non presente nelle Scritture, San Basilio Magno rispondeva ricorrendo all’autorità della Tradizione, non senza spiegare come questa formula, pur non presente nella Bibbia, concordasse perfettamente con l’insegnamento delle Scritture; e non senza mettere in evidenza che è proprio degli eretici invocare «le prove della Scrittura, mentre rifiutano come inattendibile la testimonianza non scritta dei padri» (Lo Spirito Santo, 10, 25).  
 
A costoro Basilio ricordava essere «criterio apostolico attenersi anche alle tradizioni non scritte» e ribadiva il principio fondamentale: «Fra le dottrine e le proclamazioni custodite nella Chiesa, talune le deriviamo dall’insegnamento scritto, altre le abbiamo ricevute dalla tradizione apostolica, a noi trasmesse segretamente. Ma entrambe hanno lo stesso valore per la pietà […].  
 
Se infatti noi tentassimo di scartare i costumi non scritti che non hanno grande incidenza, a nostra insaputa danneggeremmo il vangelo proprio nelle parti essenziali; anzi di più: ridurremmo la proclamazione a un nome vuoto […]. Non mi basterebbe una giornata intera se volessi esporre i misteri della Chiesa non scritti» (Ibi, 27, 66.67).  
 
La Tradizione mostra dunque non solo una priorità rispetto alla Scrittura, ma anche una dinamicità che permette alle stesse Scritture di essere un testo vivo e vitale, in quanto bacino in cui si tuffa la Tradizione vivente e trasmesso dalla stessa.  
 
Dal canto loro, le Scritture hanno la peculiarità di una forma fissa e dunque più facilmente riconoscibile, laddove per la Tradizione occorrerà sempre vagliare tra la Tradizione e le tradizioni umane, che non di rado divengono anche tradizioni falsificanti il senso autentico dei testi sacri.  
 
Non solo: è unicamente riguardo alle Sacre Scritture che possiamo parlare propriamente di ispirazione e della relativa inerranza, per cui possiamo affermare che essa è Parola di Dio.  
 
A ben vedere, questa caratteristica delle Scritture, lungi dal rinchiuderle in sé come un tutto completo e autosufficiente, le apre alla Tradizione, perché quel Dio che ha ispirato gli agiografi, perché «agendo egli stesso in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva» (Dei Verbum, 11), ha anche guidato la trasmissione della Rivelazione nella sua Chiesa tramite la Tradizione, che delle Scritture diventa l’adeguato e insostituibile contesto interpretativo e da cui, insieme alle Scritture, la Chiesa «attinge la certezza su tutte le cose rivelate» (Ibi, 9).  
 
Fonte "Il rapporto tra Scrittura e Tradizione"  
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L’autorità della Chiesa, necessaria per confermare i fratelli

 
Nell’ultimo articolo abbiamo cercato di indagare lo stretto rapporto tra Scrittura e Tradizione, e come siano le stesse Scritture ad attestare l’esistenza di una Tradizione normativa.  
 
Ma abbiamo anche messo in luce che, fin dagli inizi della storia della Chiesa, si è dovuto affrontare il problema delle false tradizioni, che, sovrapponendosi alla vera Tradizione, hanno minato le fondamenta della fede.  
 
Fu un problema che dovette affrontare già nostro Signore, come testimonia il Vangelo a proposito delle tradizioni degli uomini che tradivano la parola di Dio. Di fronte ai farisei, i quali si lamentavano che i discepoli del Signore trasgredivano la «tradizione degli antichi» non lavandosi le mani prima di prendere cibo, Gesù aveva rivelato la loro ipocrisia nell’interpretare il senso dell’offerta sacra a Dio, il Korbàn (cf. Mt 15, 1-9).  
 
Contrariamente a quanto una certa predicazione non si stanca di ripetere, in questo passo il Signore non ha puntato il dito contro il valore della Tradizione, né ha affermato la superiorità delle Scritture su quest’ultima e neppure ha negato la sacralità dell’offerta fatta a Dio, eliminando così il principio del sacro.  
 
Quello che Gesù ha severamente colpito in questa disputa è la completa misinterpretazione della legge di Dio relativa al Korbàn, in nome di una tradizione umana animata da avidità di denaro e ipocrisia. Dunque, di fatto Gesù, di fronte all’insidia farisaica, ha operato un discernimento tra vera e falsa Tradizione, mostrando dunque la necessità di una parola autorevole e definitiva non solo per la corretta interpretazione delle Scritture (le diverse offerte sacre, korbanoth, erano infatti prescritte dalla Torah), ma anche per comprendere quali tradizioni provengono dagli uomini e quali invece da Dio.  
 
Il Signore ha trasmesso agli Apostoli l’ufficio di ammaestrare tutte le nazioni (cf. Mt 28, 19), non solo come prosecutori della sua opera, ma anche come coloro che agiscono in suo nome, ossia con la stessa autorità del Maestro. E gli Apostoli hanno operato nella consapevolezza di questa autorità: «Noi fungiamo quindi da ambasciatori di Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo» (2Cor 5, 20).  
 
È ancora San Paolo ad esprimere la consapevolezza dell’autorità magisteriale a lui trasmessa da Cristo, che ogni apostolo dovrà esercitare «distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza a Cristo» (2Cor 10, 5).  
 
L’obiezione che normalmente viene mossa in ambito protestante è che in realtà quello degli Apostoli sarebbe stato un carisma personale, non trasmissibile; alla loro morte, pertanto, sarebbe venuta meno un’autorità magisteriale vincolante e la custodia-trasmissione della fede sarebbe ora compito di tutti i cristiani, senza distinzioni legati ad una particolare autorità e, soprattutto, senza che alcuno possa vincolare altri all’obbedienza della fede.  
 
Il minimo che si possa dire della suddetta posizione è che essa appare senza senso. Si dovrebbe infatti ritenere che il Signore, tramontata l’epoca apostolica, avrebbe lasciato la sua Chiesa senza alcuna autorità normativa per dirimere gli inevitabili dissidi dottrinali interni, senza alcun «carisma certo della verità» per dirigere lo sviluppo della comprensione dell’insegnamento del Signore.  
 
Di fronte all’insidia dei giudei come dei falsi fratelli, la Chiesa sarebbe stata sguarnita di un’autorità capace di confermare i fratelli nella fede. L’espressione virgolettata proviene dall’Adversus hæreses (IV 26, 2) di Sant’Ireneo di Lione, che contrapponeva alle novità degli eretici, in particolare gli gnostici, appunto questo carisma affidato non ai soli Apostoli, ma alla «successione del ministero episcopale».  
 
Dunque, anche i primi successori degli Apostoli avevano la consapevolezza che con il venir meno del carisma apostolico non si era però estinto il ministero apostolico, trasmesso ad alcuni scelti e consacrati mediante l’imposizione delle mani.  
 
Ancora, il minimo che si possa dire è che la pretesa auto-evidenza delle Scritture e l’univoca interpretazione del depositum sono smentite costantemente dalla storia della Chiesa; a chi spetterebbe dunque dirimere le questioni per custodire la retta fede e l’unità del gregge di Cristo? Agli esegeti e ai biblisti, in continua divergenza tra loro, le cui interpretazioni “assolutamente certe” – giunte fino all’affermazione di ritenere impossibile dire alcunché sul Cristo della storia – vengono sistematicamente ridimensionate, quando non smentite qualche anno dopo?  
 
Ad una presunta interpretazione della maggioranza dei cristiani, così facilmente incline nel seguire ogni genere di nuova dottrina, inculcata tramite un’abile propaganda?  
 
San Paolo aveva ben presente, infatti, che ben presto sarebbe venuto il giorno «in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Tm 4, 3-4).  
 
Per questo non in generale ai fedeli, ma a Timòteo, sul quale egli aveva imposto le mani costituendolo vescovo della comunità cristiana di Efeso, si rivolge, esortandolo: «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2Tm 4, 2).  
 
A lui, e non al popolo di Dio in generale, viene rivolta la raccomandazione di custodire il deposito (cf. 1Tm 6, 20).  
 
Questo evidentemente non significa negare che ogni cristiano, secondo la responsabilità che esercita nella Chiesa e secondo le proprie capacità, sia tenuto a custodire il deposito e trasmetterlo; significa invece che «la conservazione inalterata del Vangelo non può essere garantita soltanto attraverso le forze umane le quali non sono immuni dalle alterne vicende della storia» (Leo Scheffczyk, Fondamenti del dogma, 2010, p. 137).  
 
Il Magistero della Chiesa, infatti, altro non è che un insegnamento che gode della particolare assistenza dello Spirito Santo, affinché nei secoli l’annuncio del Vangelo cresca e si sviluppi, senza alcuna corruzione o diminuzione.  
 
Per questa ragione, con grande saggezza, la Chiesa insegna che il Magistero costituisce la “regola prossima della fede”; non la regola ultima, perché il Magistero è sottomesso all’autorità delle Scritture e della Tradizione, ma regola prossima, senza la quale sia le Scritture che la Tradizione finirebbero per essere lacerate da interpretazioni individuali e contrapposte.  
 
Proprio per la sua funzione di piamente ascoltare, santamente custodire e fedelmente esporre la parola di Dio, scritta e trasmessa (cf. Dei Verbum, 10), questo Magistero, nelle diverse modalità del suo esercizio partecipa, secondo gradi differenti, di quel «carisma di verità» di cui Cristo ha ornato la sua Chiesa.  
 
Solo in questo modo è possibile che l’insegnamento del Signore non venga alterato, corrotto, manipolato, ma possa invece illuminare ogni secolo della storia umana, ogni cultura e ogni persona.  
 
Fonte "L’autorità della Chiesa, necessaria per confermare i fratelli"  
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I punti chiave del dissenso di Lutero

 
Per evitare di perdersi in questa lunga serie di articoli dedicati allo scisma di Lutero, può essere utile presentare brevemente i punti chiave del suo dissenso, richiamando nel contempo la dottrina cattolica su ciascun punto.  
 
Il cuore della dottrina luterana, la quale – giova ricordarlo – si ritrova per lo più in esortazioni, lettere, pamphlet, discorsi e praticamente mai in veri e propri trattati (eccettuato il De servo arbitrio), riposa sul modo di intendere la salvezza.  
 
La giustificazione è, nella prospettiva luterana, sostanzialmente un atto della volontà divina che decide misericordiosamente di non imputare all’uomo il peccato, ma di ricoprirlo della giustizia di Gesù Cristo, così che Dio non vede più in lui un peccatore, ma i meriti del suo Figlio unigenito incarnato.  
 
La natura umana, del tutto corrotta dal peccato originale, rimane tale anche quando l’uomo viene giustificato, essendo egli non trasformato interiormente, ma come rivestito esteriormente.  
 
L’insegnamento della Chiesa cattolica riconosce non una radicale corruzione, ma una ferita che il peccato originale ha inferto alla natura umana e che si trova fondamentalmente nella concupiscenza, la quale ha indebolito la nostra natura e la rende incline al peccato; e tuttavia, la concupiscenza è qualcosa che si avverte, che si sperimenta, ma che non costituisce di per sé peccato.  
 
La concupiscenza viene dal peccato (originale), inclina al peccato, ma non è peccato, come invece voleva Lutero. L’uomo è così chiamato ad abbracciare le armi dell’ascesi, sostenuto dalla grazia, per dominare la concupiscenza, e ad accostarsi frequentemente ai sacramenti per essere incessantemente purificato e reso cristiforme.  
 
Lutero si distacca dall’insegnamento della Chiesa anche relativamente alla fede, affermando che, per la giustificazione del peccatore (intesa come appena spiegato), non è richiesto null’altro che la sola fede, intesa come fiducia nella misericordia di Dio di essere stato salvato.  
 
È la cosiddetta “fede fiduciale” (fides fiducialis), che sottostima il fatto che l’assenso della fede si volge anche alla verità che Dio ha rivelato, ossia la fede dogmatica o retta fede.  
 
Nella prospettiva di Lutero troviamo inoltre l’esplicita esclusione della volontà umana nell’opera della giustificazione.  
 
La giustificazione non solo è dono gratuito, come afferma anche la Chiesa cattolica, ma è “dono imposto”, di fronte al quale l’uomo è sostanzialmente passivo e “corrisponde” solamente con la fiducia che i suoi peccati siano stati rimessi.  
 
Per Lutero, esiste un insanabile conflitto tra grazia e merito, tra azione divina e libertà dell’uomo: la grazia esclude decisamente il merito, laddove nella prospettiva cattolica è proprio la grazia, che agisce nell’uomo e che lo trasforma, ad essere principio del merito, in sinergia con la libera volontà dell’uomo.  
 
La grazia purifica e sostiene la libertà, così che l’uomo possa compiere atti veramente responsabili nell’ordine della salvezza (e non solo nell’ordine temporale, cosa che anche Lutero ammette), e dunque realmente meritevoli sia di un ulteriore aumento della grazia che della vita eterna.  
 
Grazia e merito che viene dalle buone opere sono i due elementi costitutivi del percorso di santificazione del cristiano, che nella prospettiva di Lutero perde di fatto di significato, dal momento che la giustificazione è concepita come opera esclusiva di Dio, la fede è fiducia di esser stati giustificati e le opere sono semplicemente l’effetto del perdono di Dio.  
 
Estremamente importante è anche la deviazione luterana relativamente alla Chiesa e ai sacramenti. Lutero non negava del tutto una certa visibilità della Chiesa, la quale però resta sostanzialmente una realtà interiore, e pertanto invisibile; la Chiesa, nella sua prospettiva, si manifesta esteriormente nella predicazione dei pastori e nei sacramenti (che per Lutero sarebbero solamente due, ossia il battesimo e l’eucaristia), ma questi ultimi non sono, come insegna la Chiesa, segni efficaci della grazia, ma segni esterni che manifestano la fede e che la edificano.  
 
Più specificamente sull’Eucaristia, Lutero critica esplicitamente la conversione della sostanza del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, detta transustanziazione, e abbozza una spiegazione secondo la quale Cristo è realmente presente insieme al pane e al vino, distanziandosi in questo modo anche dalle altre correnti riformate.  
 
Ancora, Lutero negava apertamente che la Messa fosse un vero sacrificio propiziatorio, memoriale del sacrificio di Cristo sulla croce per la nostra salvezza, ritenendolo un rito nel quale Cristo si fa presente (nel modo detto sopra), ma non è offerto in sacrificio dal sacerdote.  
 
Sacerdozio che, com’è noto, in Lutero non ha natura propriamente sacramentale, ossia non differisce per essenza dal sacerdozio comune o battesimale.  
 
Infine, affermando il principio della “sola Scrittura”, ossia della sostanziale coincidenza della Rivelazione con la Bibbia e della Scrittura come unica e ultima autorità per la comunità cristiana, Lutero respingeva sia il senso vincolante della Tradizione della Chiesa, che l’esistenza di un vero e proprio Magistero autentico, con l’autorità di definire le verità della fede e della morale cristiana.  
 
Sarà poi Filippo Schwarzerdt, più conosciuto come Melantone (1497-1560), a rivedere alcuni punti dell’insegnamento di Lutero: per l’eucaristia, preferì appoggiare l’idea di una presenza del Signore nel pane e nel vino che vengono distribuiti nella santa Cena, allargando le maglie della spiegazione luterana che suonava ancora troppo cattolica per essere accettata dagli altri riformatori; riguardo alla fede e alle opere, dopo la morte di Lutero, propose una dottrina detta “sinergista”, che in qualche modo cercava di recuperare la risposta della libertà umana, che si riconosceva svolgere un ruolo reale nel rifiutare o accogliere la grazia, di fronte al rigido determinismo di una predestinazione in qualche modo imposta all’uomo giustificato e che poteva pericolosamente “giustificare” condotte di vita poco cristiane, rassicurate dal fatto che Dio imputa la salvezza a prescindere dalla corrispondenza dell’uomo. Posizione che diede origine alla “controversia sinergista” e che di fatto continua a segnare un importante punto di divergenza tra luterani e riformati provenienti dal calvinismo.  
 
Fonte "I punti chiave del dissenso di Lutero"  
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2025-04-30
Autore : Luisella Scrosati Fonte : La Nuova Bussola Quotidiana
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