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La S. Messa in rito antico e in rito nuovo (parte 2)
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Messa Pontificale - Museo Nazionale del Prado, 1723

La prima parte del presente articolo è visualizzabile cliccando qui  
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La S. Messa in rito antico e in rito nuovo (parte 2)

 
Una delle caratteristiche fondamentali della Messa tridentina è l’uso della lingua latina. Sacro e solenne, il latino non impedisce la partecipazione dei fedeli, ma al contrario la facilita, consentendo di gustare e di comprendere più profondamente la sostanza “dell’augusto Sacrificio dell’altare".  
 
Il latino è la caratteristica del­la Messa tridentina che più risalta. Anche la “Messa moderna” si può celebrare in latino, ma resta un Rito distinto.  
 
Il Documento sulla Litur­gia del Concilio Vaticano II, la Sacrosanctum Concilium, riaf­ferma la necessità dell’uso del latino anche per i fedeli (la lin­gua nazionale è stata ammes­sa limitatamente dai Padri conci­liari solo come una eccezione):  
 
Art. 36 § 1: «L’uso della lingua latina, salvo diritti parti­colari, sia conservato nei riti la­tini [cioè nel Rito Romano ] /.../ si può concedere alla lin­gua volgare una parte più ampia», “una congrua parte” (cfr. n. 54) ma non una deroga totale;  
 
Art. 54: «[...] si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordi­nario della Messa che spettano ad essi»;  
 
Art. 116: «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della Liturgia ro­mana: perciò nelle azioni litur­giche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale».  
 
Per i sacerdoti il Concilio aveva indicato che l’Ufficio divino fosse pregato in latino: “Secondo la secolare tradizione del rito latino per i chierici sia conservata nell’Ufficio divino la lingua latina” (n. 101 § 1).  
 
Dopo il Con­cilio, non solo su questo punto, si è fatto esattamente il contrario di quanto indicato dal Concilio.  
 
1. La lingua latina è, in pri­mo luogo, lingua sacra e solenne: aiuta il fedele a compren­dere la grandezza dell’evento che nella Messa si realizza (il rin­novarsi del Sacri­ficio del Cal­vario).  
 
Si tratta di un evento straordinario, non comune, che necessita, per essere espresso, di un linguaggio non comune, straordinario. Il latino ha questa caratteristica. Tutte le religioni celebrano la loro liturgia in una lingua non corrente, ognuna di esse utilizza una lingua sacra: gli indù usano il sanscrito, i musulmani l’arabo antico, ecc.  
 
2. Il latino, inoltre, rappre­senta, per essere una lingua “morta”, una lingua non soggetta ad evoluzione, una preci­sa garanzia dell’ortodossia e della universalità o cattolicità della Chiesa, dell’immutabilità del dogma20, com­promessa dalle molteplici e non sempre felici tra­duzioni, peral­tro bisognose di continui aggiornamenti.  
 
Fino a poco tempo fa – con l’uso universale del latino - un fedele poteva andare a Messa in qualsiasi paese del mondo e la diversità di lingua non costi­tuiva alcun impedimento: qualunque sacerdote – grazie all’uso universale del latino - poteva dire Messa in tutto il mondo per tutte le comunità di qualunque lingua vernacola e tutti comprendevano l’unica Messa.  
 
Nell’Esortazione Apostolica, “SACRAMENTUM CARITATIS” (22/2/2007) il Santo Padre Benedetto XVI ha ribadito, in merito all’uso del latino21 e del canto gregoriano22, indicazioni che si trovano già nel concilio Vaticano II e nel Messale Romano.  
 
Nei Principi e Norme per l’uso del Messale Romano (P.N.M.R.), edizione 1983, era già indi­cato di “imparare in latino almeno alcune parti dell’Ordinario della Messa: “Poiché sono sempre più frequenti le riunioni di fedeli di diverse nazionalità, è opportuno che sappiano cantare insieme, in lingua latina, e nelle melodie più facili, almeno le parti dell’Ordinario della Messa, specialmente il Simbolo della Fede e la preghiera del Signore (Pater Noster)23.  
 
Si pensi ad esempio a quanti pellegrini, di tante nazioni diverse, vanno a Lourdes, Fatima, Guadalupe, ecc. In questi grandi raduni internazionali, nei grandi santuari, quando si prega insieme, invece di recitare tante “Ave Maria” in tante lin­gue diverse (tedesco, spagnolo, inglese, francese, polacco, giapponese, cinese, coreano, ecc.), per cui, alla fine c’è solo una sgradevole cacofonia e si comprende solo l’Ave Maria nella propria lingua, ma non si comprende nulla delle altre Ave Maria in altre lingue (che tra l’altro si sovrap­pongono creando una specie di fastidiosa babele linguistica) sarebbe più opportuno, e forse più fruttuoso che, imparandole per tempo in parrocchia, si recitassero le preghiere del Santo Rosario, in latino, in modo che tutti possano comprendere e partecipare meglio.  
 
Il Papa Benedetto XVI, martedì 28 giugno 2005, presentando il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, spiega il motivo per cui l’Appendice al testo in­clude, alcune “preghiere comuni” dei cristiani, anche in latino. Ecco le sue parole: «Per tutti i secoli veicolo e strumento della cultura cristiana, il latino garantisce non solo la continuità con le nostre radici, ma rimane quanto mai rilevante per rin­saldare i legami dell’unità della fede, nella comunione della Chiesa”. /.../ L’aggiunta di alcune preghiere invita a ritrovare nella Chiesa un comune modo di pregare, non solo a livello personale, ma anche comunitario. In ognuna delle tra­duzioni, la maggior parte delle preghiere saranno presentate anche nella lingua latina. Il loro apprendimento, anche in questa lingua, faciliterà il pregare insieme da parte dei fedeli cristiani, appartenenti a lingue diverse, specialmente quando si incontreranno insieme per particolari circostanze».  
 
Ricordiamo che queste stesse motiva­zioni si trovano nella Costituzione apo­stolica “Veterum sapientiae”, firmata da Papa Giovanni XXIII, il 22 febbraio 1962, proprio sul significato – per la comunica­zione - dell’uso del latino nella Chiesa Cattolica.  
 
Per aiutare a vivere queste indicazioni del Santo Padre Benedetto XVI, è necessario che ogni cattolico impari, in latino, le preghiere minime essenziali di ogni cristiano, ma che soprattutto, per poterle usare poi nei raduni internazionali le impari e le usi prima a casa sua, nel quotidiano della sua parrocchia!  
 
3. Il latino non impedisce la partecipazione dei fedeli, ma, al contrario la facilita. Per partecipare “attiva­mente”, cioè spiritual­mente, alla Santa Mes­sa, non è necessario ca­pire materialmente ogni singola parola. Della Li­turgia bisogna af­ferrare lo spirito, la sostanza che è quella di un mistero ossia evento salvifico della Redenzione dai peccati, operata da Cristo, di cui dob­biamo appropriarci, e quindi della salvezza finale.  
 
Il latino è la lingua che ti permette di af­ferrare l’essenziale dell’evento soprannaturale della Santa Messa, senza banalizzare-uma­nizzare il Mistero che vi si celebra. Se, poi, l’uso del latino si inserisce in un’atmosfera di si­lenzio (caratteristica particolare della Li­turgia antica), risulta fa­cilitato il percepire la dimensio­ne soprannaturale della Santa Messa.  
 
Le parole disturbano. E come il sacerdote si serve del Messale, così pos­sono fare i fe­deli (con l’ausilio dei messa­lini o dei foglietti). Purtroppo, dobbiamo rilevare che si è venuta a creare la falsa equazione “partecipare at­tivamente = fare qualcosa”. Tutto questo è frutto di una concezione di Liturgia, non più quale essenzialmente e prima di tutto opera divina, ma essen­zialmente e prima di tutto ope­ra umana.  
 
C’è una pretesa egocentrica: “Io voglio che il celebrante si indirizzi a me e voglio capire tutto e subito”. Ma nella Messa non può esserci la pretesa di abbassare tutto alla misura limitata dell’uomo, ma prevale il dono di Dio che vuole innalzarci a livello di Dio. Purtroppo tante volte siamo ridotti non più ad una Liturgia dove si “lascia fare a Dio” che si serve della collaborazione dell’uomo, ma ad una Liturgia do­ve prevale l’azione dell’uomo, dove tutti devono “fare” e “fa­re” necessariamente qualcosa.  
 
In un tale contesto, ascoltare, meditare in silenzio, at­tendere la grazia, non trovano la loro giusta e doverosa collocazione. Ma viene da doman­darsi: veramente adesso il “Popolo di Dio” capi­sce che cosa accade nel corso della Messa, che cosa accade sull’altare? Possiamo dire che basta avere usato la lingua del popolo al posto del lati­no, per capire cos’è la Santa Messa?  
 
Se così fosse, se ve­ramente si comprendes­se che dopo la Consa­crazione Nostro Signo­re è, nientemeno, lì sull’al­tare, tra le mani del cele­brante, quand’egli lo mostra, do­vrebbe acca­dere che tutti, attoniti, senza parole, piombino a terra, in ginocchio, senza nemmeno osare alzare lo sguardo verso l’incredibile Presenza Reale di Dio, annichiliti ogni volta da questo ter­ribile Mistero.  
 
Ma è proprio questo che accade? C’è da dire che tanti fedeli che frequenta­no la Santa Messa tradizionale non cono­scono il latino; tanti fedeli legati alla Li­turgia antica, in quanto giovani, trentenni, quarantenni, non hanno avuto la possibi­lità tecni­ca di assistere alla Messa tradizionale quand’era in vigore, semplice­mente perché non era­no nati o quasi. E si tratta di persone che in maggioranza non “hanno neanche studiato il latino a scuola, perché non lo si insegnava neanche”.  
 
Riguardo al fatto che i fe­deli del passato non capivano nulla, che riscaldavano solo le sedie delle nostre chiese, consigliamo di andare molto cauti ad affermarlo. Si può mai sostenere, con un minimo di onestà e di serietà, che per 15 secoli i cattoli­ci non hanno mai ca­pito niente quando partecipavano alla Santa Messa? Che i nostri nonni non hanno mai capi­to niente della Religione e dessero solo ad intendere di capire per non fare cattiva figura o per non essere sgridati dal parro­co?  
 
Pensiamo proprio che non si possa affermare una cosa di questo genere, per due motivi:  
1° significherebbe che lo Spirito Santo che assiste la Chiesa Cattolica non avrebbe, per ben 15 secoli, trovato un modo per far capire ai fedeli cosa si realizzi nella Santa Messa. Si farebbe quindi un gran torto allo Spirito Santo;  
2° i nostri nonni sarebbero - e dovremmo tutti sentirci offesi - tutti degli ignorantoni, incapaci di conoscere, almeno l’essenziale, di ciò che, per ope­ra di Dio, avviene nella Santa Messa.  
 
Concludiamo con un curio­so aneddoto, che pare si sia dif­fuso proprio negli anni della ri­voluzione liturgica, proprio nel famoso sessantotto. Un cattolico moderno si avvi­cina in chiesa ad una vec­chietta che, recitando il Santo Rosario, biascicava proprio tante frasi ed espressioni la­tine. «Nonni­na, ma vi ren­dete conto di quanti errori fate?! Questo significa che non capite quello che dite!». E la nonnina, con uno sguardo un po’ ironico e un po’ materno: «Che im­porta, l’importante è che capisca Lui!». E alza gli occhi al cielo.  
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Una delle caratteristiche della Messa moderna è la maggiore ricchezza di Let­ture bibliche, con la conseguente soppressione di formule di stile ecclesia­stico previste, invece, nella Liturgia antica.  
 
Una distinzione che esprime il diverso valore attribuito alla Sacra Tradizione dalle due forme liturgiche. Nella nuova Messa viene ac­cordato uno spazio importante alle Letture e alla predica­zione, con la possibilità data al sacerdote di aggiungere discorsi e spiegazioni personali.  
 
Il Concilio Vatica­no II ave­va raccomandato una maggiore ricchezza biblica nella Messa, Letture più abbondanti, in mo­do che in un determinato nume­ro di anni si legga al popolo la parte migliore della Sacra Scrit­tura24.  
 
Sono nati così dei cicli triennali di Letture bibli­che che comprendono an­che quelle tratte dall’Antico Testa­mento; nelle domeniche e nelle feste si hanno tre Letture, delle quali la prima è presa dal Vec­chio Testamento. Dare maggiore spazio alla Sacra Scrittura è cosa buona, ma occorre considerare dovero­samente che per Parola di Dio non si deve intendere soltanto la Sacra Scrittura o la Bibbia, bensì anche e in primo luogo la predica­zione della Chiesa25, nella quale l’omelia non consiste soltanto nel com­mentare esclusivamente la Bibbia, come per i protestanti, ma anche nel riflet­tere sulle tematiche principali del Credo, dei Sacramenti, del­la morale cristiana e della pre­ghiera cristiana, come risul­ta nei catechismi26.  
 
 
Il limi­tarsi semplice­mente e solamente ai temi proposti (se e quando vengono colti) dalle Letture bibliche, spesso fa risulta­re la predicazione di­spersiva e incompleta, con il danno di una mi­nore fissazione nella memoria de­gli uditori delle verità fondamen­tali della Dottrina cattolica.  
 
Bisogna anche rilevare che, oggettivamente, le scelte dei brani scritturistici non sono sempre appropriate e che spe­cialmente le Letture dell’Anti­co Testamento non sono sem­pre ben com­prensibili.  
 
Il tenta­tivo di voler offrire un panora­ma completo (non lo sarà mai) della Sacra Scrittura comporta, con sé, il proporre anche brani poveri di contenuto o ripetitivi, mentre nella Messa tridentina le Letture bibliche, special­mente in certi tempi, come quello della Quaresima, sono più ampie.  
 
Il protestantesimo, in effet­ti, fedele al principio della sola Scrit­tura, ha cercato di sostituire, nel culto liturgico, le formule di stile ecclesiastico con Letture della Sacra Scrittura. E questo per un duplice motivo:  
 
prima di tutto quello di far tacere la voce della Tradizio­ne. Per Tradizione non s’inten­de certo il significato comune che diamo abitualmente alla pa­rola “tradizione”, come quando si dice, per esempio, che una determinata realtà “ha una gran­de tradizione alle spalle”, quasi a volersi affidare al passato, in qualche modo autorevole, speri­mentato. Per Tradizione, in ambito cattolico, s’intende uno dei due punti di riferimento della Fe­de (l’altro è la Sacra Scrittura, la Parola di Dio scritta). Il Cate­chismo della Chiesa Cattolica afferma che il «depositum fidei» (ossia il “deposito della Fede”, ciò in cui crediamo) è contenu­to sia nella Sacra Scrittura che nella Sacra Tradizio­ne27, la Parola di Dio riguardante la Fede e la mo­rale non scritta, trasmes­sa con la predicazione, gli esempi e le istituzioni (ad esempio, il diaco­nato e il Concilio), da Cristo agli Apostoli e da questi ai loro successori fino a noi senza in­terruzioni, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro pre­dicazione fedel­mente la conservino, la espon­gano e la diffondano28.  
 
Non tutto ciò che Dio rive­lò ad Adamo, ai Patriarchi e Profeti dell’Antico Testamento fu registrato nel Libri della Sa­cra Scrittura. Così l’insegnamento di Cristo e degli Apostoli non fu scritto interamente nei Libri del Nuovo Testamento.  
 
A conclu­sione del suo Vangelo, san Gio­vanni ha scritto: «Vi sono, poi, molte altre cose fatte da Gesù, le quali, se si scrivessero una per una, ritengo che neppure il mondo potrebbe contenere i li­bri che si dovrebbero scrivere»29.  
 
Non fu intenzione degli Evan­gelisti mettere per iscritto tutti i detti e i fatti di Gesù. Gesù Cristo dopo aver pre­ dicato, e non scritto, le sue verità, affidò agli Apostoli la missione non di scrivere, ma di propagare oralmente quanto ave­vano udito dalle sue labbra o avrebbero imparato dai sug­gerimenti dello Spirito Santo30.  
 
San Paolo ricordava ai fe­deli di Tessaloni­ca: «Dunque, o fratelli, state saldi e segui­te fe­delmente le dottrine che vi ab­biamo trasmesso sia a viva Vo­ce che per lette­ra»31.  
 
I Padri della Chiesa hanno attestato la vivificante presenza di questa Tra­dizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega32.  
 
In tal modo la comunicazione che il Padre ha fatto di Sé, mediante il suo Ver­bo nello Spirito Santo, rimane sempre presente e operante nel­la Chiesa33.  
 
Per diffondere e soste­nere i suoi dogmi per via di ne­gazione o di affermazione. Per via di negazione passando sotto silenzio, per mezzo di un’abile scelta, i testi che esprimono la dottrina contraria agli erro­ri che vogliono far prevalere; per via di affermazione citando testi bi­blici incom­pleti, mostrando co­sì solo un aspetto della verità, quella che si vuol far conoscere al popolo.  
 
Con questa tecnica si fa dire alla Sacra Scrittura tutto e solo quello che si vuole, tutto e solo quello che è attinente a difendere le pro­prie posizioni ideologi­che.  
 
Del resto, la stessa Sacra Scrittura è asservita all’ideolo­gia. Così Martin Lu­tero ritiene che siano dogmi da stabilire l’i­nutilità delle opere e la suffi­cienza della sola fede, e quindi dichiarerà che l’Epistola di san Giacomo è “una epistola di pa­glia”, e non una epistola canoni­ca, per il solo fatto che vi si in­segna la necessità delle opere per la salvezza. Quindi, niente formule ecclesiastiche, sola Scrittura, ma interpretata, scel­ta, presentata da colui o da co­loro che hanno interesse alla innovazione.  
( continua )  
Padre Francesco Pio M. Pompa F.I.  
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Note

 
20 cfr. Eb 13,8-9 21 Sacramentum Caritatis n. 62 22 Sacramentum Caritatis n. 42 23 cfr. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium n. 54 b;  
cfr. Inter Oecumenici, n. 64;  
cfr. Principi e Norme per l’uso del Messale Romano (P.N.M.R.), edizione 1983, n. 19  
24 Sacrosanctum Concilium, 51  
25 cfr. 1Ts 2,13  
26 cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica  
27 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 84  
28 Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 75-83  
29 Gv 21,25; cfr. Gv 20,30-31  
30 cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 75  
31 2Ts 2,15  
32 cfr. Dei Verbum, 8  
33 cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 79  
 
2022-09-10
Autore : Padre Francesco Pio M. Pompa Fonte : Settimanale di P. Pio
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